Quarta corrispondenza di Marina Freri dall’Australia e anche da Lodi…

Questo è un post iniziato a Sydney e finito a Lodi, un post a metà, proprio come mi sento in questo momento in cui sono seduta alla scrivania su cui ho fatto i compiti del liceo e studiato per gli esami dell’università. Nel giro di trenta ore ho lasciato Sydney, i suoi parchi, le sue spiagge e l’estate per ritrovarmi a casa con i miei genitori: erano 19 mesi che non tornavo.
Non me l’ha prescritto il medico di emigrare in Australia, ne sono consapevole, è stata una libera scelta fatta credendo nelle opportunità che avrei potuto trovare, una scelta che rifarei domani, ma che ha cambiato radicalmente i rapporti con le persone che amo. Dall’Australia non si vola in Italia per il weekend con un biglietto low cost. E questa condizione rallenta il ritmo del vivere quotidiano e delle emozioni.
Non è facile assistere alla vita della propria famiglia in moviola, vedere il loro presente sempre in replay, a 8 o 10 ore di distanza di fuso orario, in qualche minuto di telefonata.

In 19 mesi succedono un sacco di cose. Mio fratello ora vive in una casa che non ho ancora visto, mia cugina ha avuto un bimbo che ho conosciuto solo ieri, Leonardo, di 15 mesi, i miei nonni non abitano più nella casa in cui ho fatto colazione fino alla laurea, le mie amiche invece si sono laureate e provano a tenersi con i denti lo stage che fanno: Arianna convive, Sabrina vorrebbe, Erica andrà all’estero. Lodi invece è sempre la stessa, proprio come l’ho lasciata e come mi manca quando sono a Sydney: la piazza piena di signori a braccetto, i bar in cui si chiacchiera col giornale aperto e le biciclette che ti tagliano la strada.
Mi stupisce vedermi per strada, sentire parlare la mia lingua ed essere perfettamente a mio agio. Qui sono nata e cresciuta, ma ora vivo con la stessa naturalezza in Australia, dove le mie giornate iniziano presto, con una nuotata al mare alle 6.30 del mattino, prima di prendere il treno per andare al lavoro. I capelli li lascio bagnati, perché si asciugano da soli – un’ovvietà che mi sfugge in Italia, dove mi pettino sempre. Il treno su cui salgo taglia tutta Sydney da est a nord, passa sull’Harbour Bridge e mi ricorda quanto sia vasta Sydney. Il viaggio dura un’ora, come se da Lodi andassi a Parma tutti i giorni.
Mi accorgo di appartenere a due posti agli antipodi, sia geograficamente sia culturalmente, con la sola differenza che la vita in Australia la sento più mia, perché me la sono creata io, senza conoscenze, senza amici di…, senza certezze e con la volontà di essere felice.

Pur essendo tornata a Lodi solo per le vacanze, la domanda che i miei amici o le persone che incontro mi rivolgono più spesso è se io pensi mai a tornare definitivamente o se abbia mai mandato un curriculum in Italia. La mia risposta è sempre la stessa: a chi potrei mandarlo?
In un post di ottobre scritto da Lorella sulle misure “contro-esodo” per riportare i laureati in Italia, e nel caso specifico a Milano, mi ero permessa di commentare che la prima cosa che servirebbe è la trasparenza di una sezione “lavora con noi” in evidenza sui siti web delle aziende. Possibile che nella maggioranza dei casi la si trovi solo scorrendo fino alla fine della pagina, in un carattere da bigino delle medie?
Poi ci vorrebbe l’onestà di inserire un recapito telefonico, fosse anche solo per cortesia. L’ideale sarebbe poter entrare in contatto con un ufficio del personale, senza dover finire in tre segreterie telefoniche differenti. L’ideale sarebbe anche lasciare un messaggio e pensare di poter ricevere una risposta. Ma questo non succede ed è frustrante.
Nel mio caso poi, di giornalista, le mie qualifiche verrebbero prese in considerazione dall’Ordine dei Giornalisti? O mi consiglierebbero di frequentare da capo una scuola dell’Ordine? Una di quelle che confeziona, imballa e impacchetta nuovi disoccupati? Mi spaventa veramente che sia stato più facile pubblicare retribuita in inglese che in italiano.
E forse è per tutte queste incognite – come quella di inviare un curriculum che potrebbe essere risucchiato in un buco nero e riemergere solo dieci anni dopo – che mi sento di rispondere “tornerei se i miei me lo chiedessero”. Peccato che i miei genitori siano troppo felici per me, per poterlo fare.

Vi lascio con una lista di desideri per una nuova politica delle assunzioni: sono quelli che avevo incluso in un commento a questo post di Lorella – http://www.ilcorpodelledonne.net/?p=7931.

– Richiedere che sia sempre ben visibile sulle pagine web la sezione “Lavora con noi”;
– Richiedere che ci sia un contatto reale di una persona fisica o ufficio da contattare per domande di lavoro;
– Richiedere impegno alle aziende perchè i contratti da stagista non superino i sei mesi e risultino o in un’offerta di lavoro regolare o nella sospensione della collaborazione;
– Creare un sistema di “riconoscimento” e “promozione” per quelle aziende che assumono neolaureati con contratti non precari;
– Promuovere fiere e eventi sul reclutamento di personale;
– Offrire corsi di aggiornamento su come affrontare un colloquio per chi ritorna in Italia.

Quali sono i vostri?

Marina