Dopo Lettera da Parigi di Giulia e Lettera da Berlino di Livia, ecco l’incontro con Marina 25enne che vive a Sydney. Queste lettere sono preziose: non un incitamento a lasciare il Paese, ma uno stimolo a riflettere sul fatto che contaminarsi con altre realtà è sempre bene. Per poi portare una nuova consapevolezza in Italia.
Grazie Marina!
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Mi chiamo Marina, ho 25 anni, lavoro come giornalista a Sydney, dove vivo dal 2009. In questa colonna scrivo come si vive da donna in Australia, ben 8 ore avanti sull’orologio di Lodi, da cui sono partita.

Sono quasi le sette di sera di una primavera che stenta a ingranare qui a Bronte Beach, un paio di chilometri a est dall’Opera House di Sydney, e penso che sono le dieci del mattino italiane di una domenica di fine estate, di cui riesco a immaginare i mercati, i profumi e le campane.
Mi manca l’Italia ora che vivo a qualche continente di distanza; mentre quello che mi è mancato crescendo è stato un po’ d’amor patrio, l’orgoglio di essere italiana. Un sentimento di appartenenza che ho sempre trovato difficile sviluppare – mondiali 2006 esclusi – ma che ho sentito vivo quando dall’Australia ho visto le donne di “Se Non Ora Quando”.

Abito a Sydney da quasi tre anni, dove lavoro come producer in radio e come giornalista online: due ruoli che adoro, e che ho sognato dalle cucine e dai tavoli dei bar dove ho lavorato per mantenermi. Francamente, ho sbattuto più uova di quante riuscirò mai a mangiarne, e più di una volta ho pianto di frustrazione. Ma per orgoglio, non ho mai smesso di bussare alle porte dove sapevo si nascondevano le opportunità che cercavo.
In Italia non ho avuto modo di scontrarmi più di tanto con il sistema stage e stipendio sotto la soglia dell’immaginabile che tormenta i miei amici più cari. In parte perchè me la sono sempre cavata a colpi di ripetizioni di latino, e in parte perchè ho praticamente discusso la mia tesi sul teatro tragico di Seneca ad un gate dell’areoporto di Malpensa, mettendo una laurea in lettere nel bagaglio da stiva, e la certezza che non me ne sarei fatta nulla in quello a mano.
D’altronde, fossi rimasta, avrei forse potuto ambire a fare la giornalista nella redazione della Pimpa?
Invece in un paese in cui una donna è addirittura primo ministro, la mia laurea in pessimismo mi è valsa una tenacia che non sospettavo d’avere, portandomi ad essere una ragazza felice del proprio lavoro, della propria casa e della nazione in cui vive. Forse sarebbe successo anche in Italia, non lo escludo, ma uscire dallo stivale mi ha permesso di capire che c’erano alternative per le donne, e modelli di valore da seguire.

Mi ricordo la prima volta che ho acceso la televisione in Australia, avevo 22 anni e un bagaglio pesante di tabu e problemi nell’accettarmi. Facevo zapping, mentre guardavo confusa i presentatori e le presentatrici: erano brutti; alcuni meno di altri, ma erano senza dubbio volti non adatti alla televisione che mi aveva accompagnato per vent’anni. Mi ricordo illuminante la spiegazione del mio ragazzo – “Sono persone normali”.
Ed è li che ho capito che è difficile diventare donna in un paese che venera Maria, Madre di Dio, e Victoria Beckham con quasi pari dedizione, in una società in cui le vie di un’estetica dai profili standard si impongono troppo spesso su quelle del successo intellettuale.
Sono quei modelli di perfezione fisica e morale inattingibile che impediscono alle donne adulte di guardarsi con benevolenza, di accettarsi e di interagire tra loro con onestà; mentre il rischio per le piu giovani, in un paese in cui il tasso di disoccupazione sfiora il 30 per cento tra i 15 e i 24 anni, è quello di vedere nel proprio corpo l’unica risorsa spendibile.
Il mio sentirmi a disagio nella società che meglio avrebbe dovuto accettarmi, derivava dall’incapacità di riconoscermi nei modelli femminili “di successo” che la popolano: conduttrici belle e mute, ministre show girls o donne intelligenti scure e burbere, “con le palle”, pronte a sparare a zero sulle altre. Nuove sante e nuove puttane, che provano a farcela in nome della stessa urgenza di emergere e farsi “sentire”.
Da qui era nato un flebile attaccamento al mio paese e un vago sentimento di italianità, che si è pero’ riacceso quando ho visto le piazze italiane riempirsi di donne bellissime perchè vere, pronte a far vedere che la femminilità italiana ha un volto onesto, schietto e tipico come la parlata delle città da cui veniamo.
Essere donna non dovrebbe essere nulla di eccezionale, ma una qualità trascurabile come il mio accento, il colore dei miei capelli o il mio incarnato, una caratteristica che mi rende diversa da te che mi leggi ora, ma che non pregiudica il bilancio finale della mia busta paga.
Ecco, la cartolina che vi vorrei mandare dall’Australia è  quella di una società imperfetta come lo sono altre, ma in cui già da tempo la femminilità non ha bisogno di scoprirsi e farsi divorare per potersi affermare.