Dopo Parigi, Berlino, Sydney, è con vero piacere che ospitiamo la lettera di Giusi Garigali da Barcellona, che ci propone la figura di donna italiana migrante fuori dagli stereotipi.
In archivio nella sidebar a destra trovate le puntate precedenti.
Grazie Giusi!

Mi sono immediatamente messa all’opera quando Lorella mi ha proposto di raccontare la mia esperienza di migrante italiana a Barcellona. Vivo qua da oltre 11 anni e questa mi è subito parsa una opportunità unica per parlare ai tanti giovani che seguono il Blog, proponendo loro un punto di vista differente sull’emigrazione, una voce fuori dal coro, meno entusiasta ma da tenere presente riflettendo sul tema. La mia idea, infatti, è che è arrivato il momento di dare avvio ad un brain storming collettivo su questo tema, fuori dai luoghi comuni ed approfittando delle grandi opportunità che ci offre la rete.

Come avrete intuito le cose che vi dirò non sono ascrivibili al filone “pro-emigrazione” che si è ultimamente consolidato nella pubblicistica e documentaristica italiana grazie ad alcuni “professionisti dell’emigrazione”, spesso sponsorizzati da grandi gruppi editoriali (pensiamo solo a Repubblica). L’idea che mi sono fatta è che alimentando (senza grande scientificità) paure e speranze nei giovani (e meno giovani) italiani e suggerendo sottilmente la via dell’emigrazione come l’unica praticabile “per sfuggire al disastro” – ma senza parlare dei reali costi umani dell’emigrazione – si porti avanti (più o meno consapevolmente) una “vulgata” politica che tende ad attribuire a SB tutte le “colpe” della tragedia nostrana e ad assolvere, en passant, la vecchia e fallimentare leadership di questa sinistra che ne è altrettanto responsabile e che per questo (oltre che per delle semplici ragioni anagrafiche) dovrebbe fare il piacere di schiodare dai posti di potere.

Così facendo, non si contribuisce affatto a comprendere la reale portata di un fenomeno che non è semplice decodificare né tanto meno incasellare, data la sua complessità e poliedricità, ma si manca solo di rispetto all’intelligenza altrui.

Ma torniamo al punto della riflessione: come vedo io l’esperienza dell’emigrazione e cosa sento di raccontare circa la mia personale avventura qua a Barcellona.

Credo che debba essere detto subito, e con molta chiarezza, che emigrare non è una passeggiata, e che per questo il tema deve essere trattato con la profondità che si merita, perché non si tratta di un gioco. Quindi, per esempio, credo che affermazioni ricorrenti quali “per il momento me ne vado, poi si vedrà” siano metodologicamente scorrette, perché il “poi” non arriva sempre quando vorremmo, perché le cose nella vita si complicano, perché gli imprevisti sono tanti (a meno che non si sia lasciato un Papi a casa, chiaro)… Ma andiamo per ordine.

Partirei da uno studio serio sull’emigrazione al femminile – autrice Francesca Prandstraller, bravissima sociologa prima presso l’Università Bicocca di Milano e poi alla Bocconi – pubblicato nel 2006 con il titolo Per amore per lavoro, Guerini e Associati.

Il libro – che non sposava nessuna tesi “politica” o ideologica, ma si limitava ad analizzare con la serietà di uno studio sociologico il fenomeno migratorio femminile e cercava di capirne le cause ed illustrarne le conseguenze – raccoglieva una serie di testimonianze di protagoniste dell’emigrazione, fra le quali la mia.

Ho ripreso in mano questo lavoro per scrivere il presente Post. Ho riletto la mia testimonianza di allora e sono rimasta stupita della lucidità (parliamo di 5 anni fa) e dell’attualità delle tante cose che denunciavo sull’Italia e sulle nostre (carenti, inutile dirlo) istituzioni all’estero, cose che purtroppo anziché migliorare sono, se possibile, peggiorate.

Ho pensato che “ricitarmi” sarebbe stato un ottimo punto di partenza per il presente intervento, per quanti vivono come soffocante ed opprimente la realtà italiana e a volte pensano e sognano che l’emigrazione sia l’unica via possibile per venirne fuori.

Mi sento di dire a queste persone: attenzione, la vita “altrove” (parafrasando il titolo di un libro che ha avuto un certo riscontro) non è sempre e comunque migliore (e più facile) di quella che si può vivere nel proprio Paese. Ci si può provare, ma non è scontato.

È d’obbligo, a questo punto, una precisazione: non è mia intenzione scoraggiare nessuno dal fare un’esperienza di vita / lavoro all’estero, anzi! La considero altamente educativa e assai raccomandabile. Dovrebbero farla tutti, uomini e donne, italiani e stranieri! Venire a contatto con una cultura diversa ti allarga la mente, ti porta a ragionare su molte cose che consideravi scontate, ti obbliga a metterti in discussione e ad imparare sul serio un’altra lingua etc. etc. Ma, a mio avviso, deve essere esperienza ragionata, inserita all’interno di un progetto professionalizzante chiaro e concreto (un Master all’estero, l’apprendimento di una lingua straniera, uno stage, un progetto da sviluppare per l’impresa per cui già si lavora, un progetto di ricerca etc.) e con delle precise garanzie per un possibile rimpatrio. Altrimenti è probabile rimanga un’esperienza difficile ma inutile (ma di questo riparleremo in seguito e in altri post, se ci saranno), una perdita di tempo e di energie.

Parlando di emigrazione bisogna tener presenti, infatti, due variabili MOLTO importanti, che non si menzionano mai: una coincide con la temporalità con cui si inquadra il progetto di migrazione – definitezza / indefinitezza temporale – l’altra la reversibilità / irreversibilità della decisione.

Perché un conto è l’esperienza di chi pensa di andarsene “per un po’ e poi si vedrà”, altro è emigrare per un periodo definito mandati all’estero da un’impresa che poi ti chiederà di rientrare (la qual cosa, come insegna il libro della Prandstraller, non è comunque esente da conseguenze anche a livello emotivo, il conosciuto “stress” da ritorno) altro ancora è un progetto di vita DEFINITIVO, una scelta radicale che ti porta per sempre lontano dal tuo Paese, dai tuoi affetti, dal tuo mondo. E anche quando si tratta di una scelta libera e consapevole, è sempre molto dura oltre che arricchente. Anche ai tempi di Internet e Skipe. E questo deve essere detto e ribadito con chiarezza, altrimenti si rischia di fantasticare su cose di cui non si comprendono e assumono la reale portata e le conseguenze, e che talvolta possono essere dolorose.

Da non sottovalutare anche le difficoltà di chi se ne va “pensando che prima o poi potrà tornare” e che, quando la nostalgia prende il sopravvento, non può farlo perché spesso le esperienze lavorative fatte (per esempio nel campo della ricerca) non sono adeguatamente valutate in Italia (sempre ammesso che nel frattempo si sia riusciti a trovare dei lavori qualificanti e non si sia invece “sopravvissuti” tirando a campare), o perché non si riescono a creare le condizioni per il rientro (da lontano è difficile trovare un lavoro in Italia, soprattutto senza il Papi di turno).

Quello dell’emigrazione è dunque un fenomeno molto articolato, con vinti oltre che vincitori. Soprattutto perché, e lo ripeto, arriva per (quasi) tutti il momento in cui la voglia di tornare affiora e non sempre si è in condizione di farlo. Perché prima o poi (se non te ne sei andato per una vacanza prolungata, chiaro, ma davvero ci vivi “altrove”) si verificano quegli eventi, felici o tristi, che vorresti poter condividere con i tuoi affetti più cari (famiglia ed amici) ed invece non puoi se non molto parzialmente, perché hai scelto di stare lontano.

Prima o poi ti può nascere un figlio, prima o poi la malattia e la morte ti possono colpire da vicino e tutte queste difficoltà ed emozioni, se sei all’estero, le vivrai sostanzialmente da solo. Perché, ad esempio, non è lo stesso avere un figlio e poter contare sull’aiuto della propria madre o dover rimboccarsi le maniche e far tutto da sole (so che l’utenza prevalentemente femminile del Blog capirà perfettamente ciò che dico). Non è facile gestire da soli, e soprattutto da lontano, gli ultimi 6 mesi di vita di un padre (o di una madre) ammalato, invece di potergli stare vicino e sostenerlo nei pochi giorni che gli rimangono. Chi vive all’estero deve avere le spalle molto larghe e se non ce le ha dovrà farsele. Il che non è negativo di per sé (è un corso di crescita accelerato) ma bisogna saperlo, altrimenti si entra nel campo della pura mistificazione.

Dunque è mia intenzione essere con voi franca e onesta, sgombrando il campo da mitizzazioni che non servono a nessuno.

Rinunce e sacrifici ma, come già detto, anche meravigliose opportunità create dall’incontro (che a volte può essere scontro, quando non addirittura “cultural-shock”, non dimentichiamolo) con una cultura differente. Di nuovo: bisogna saperlo ed essere sicuri di essere forti abbastanza per essere messi molto spesso in discussione, disposti a rischiare e pronti ad affrontare difficoltà in cambio di opportunità, sempre coscienti che il ritorno non sarà né facile né così scontato.

Con il senno di poi, conoscendo ora tutto quello che mi aspettava di vivere in termini di incontro/scontro con la cultura catalana e con le nostre istituzioni all’estero (altro capitolo che mi piacerebbe aprire in un’altra puntata: infatti, non aspettatevi nessun aiuto/sostegno/appoggio da quest’ultime, incarnano – quasi – sempre il peggio di quell’Italia che, andandocene, vorremmo definitivamente dimenticare), forse farei più fatica a ripetere la mia scelta di allora.

Ma ormai sono qua e cerco di starci il meglio possibile (affezionata al mio Paese, che certamente è criticabile ma che va anche difeso dagli attacchi di chi, senza conoscenza di causa, si permette di giudicarlo impietosamente, complice una stampa inutile e faziosa. E anche di questo, se vorrete, ne riparleremo).

Dunque, giusto perché sappiate cosa pensavo dell’Italia di una dozzina d’anni fa, quando me ne andai (e per sgombrare il campo da qualsiasi equivoco sulle mie posizioni) vi copio uno stralcio della mia narrazione tratto da libro di F. Prandstraller di cui sopra.

Nel mio andarmene “giocò senz’altro un ruolo importante anche un sentimento misto di rabbia e delusione rispetto alla mia patria, che aveva smesso di essere madre e che da tempo sentivo soprattutto “matrigna”. Matrigna perché la realtà sociale e lavorativa che mi toccava di vivere in Italia non era quello che avevo sperato e credevo di meritarmi.

Vivevo già da molti anni una pesante condizione di precariato lavorativo. Avevo sperimentato fra i primi (stiamo parlando di una dozzina di anni fa)” ed aggiungo io: adesso sarebbero quasi 20!!!) “la ristrutturazione del mondo del lavoro in senso <<liberista>> e mi sentivo sostanzialmente ignorata e abbandonata da tutte quelle istituzioni che da giovane pensavo mi avrebbero <<difeso>> e <<protetto>>. Il sindacato e i partiti della cosiddetta <<sinistra>> sembravano non voler prendere coscienza dei cambiamenti strutturali avvenuti nella società italiana e nell’organizzazione del lavoro. E intanto la piaga del precariato, o peggio del lavoro nero, si andava sempre più diffondendo.

Lavoravo in campo editoriale, senza orario e senza garanzie, se necessario anche il sabato e la domenica (naturalmente non retribuita per questi straordinari). Senza ferie pagate e senza diritto alla malattia, senza contributi e senza ticket-restaurant! Una condizione frustrante, eccessivamente sacrificata e talvolta, direi, persino umiliante…”

Ecco, l’obiezione più classica potrebbe essere che l’errore sia stato mio e cioè quello di accettare tali condizioni di sfruttamento. Rispondo immediatamente che non tutti hanno delle famiglie alle spalle che gli consentono di aspettare l’occasione “giusta”. Gli anni passano e, prima o poi, devi cominciare a sporcarti le mani nel mondo del lavoro (a meno che tu non abbia un Papi che eventualmente ti piazza da qualche parte, ma qui dovrei aprire una lunga parentesi sui personaggi che di volta in volta mi scavalcarono con più fortuna: la figlia di…, l’amante di…, l’ex-moglie di… e via discorrendo).

Inoltre ero già iper-qualificata, dopo una laurea in Lettere e una borsa di studio che mi aveva consentito di studiare un anno in più e di pubblicare (cosa che, nella ricerca di un lavoro, se possibile mi ha nuociuto!).

E provo dunque sincero fastidio, lo torno a ripetere, verso una certa stampa “organica” che, a distanza di quasi vent’anni, anziché preoccuparsi di spiegare ai giovani quali sono stati gli errori della sinistra di allora che hanno contribuito a portarci allo sfascio attuale (incapacità di lettura della realtà degli anni ’90, rigidità eccessiva, massimalismo ottuso, difesa ostinata SOLO di chi era già di per sé garantito etc.) e non riconoscendo la povertà di idee della sinistra di allora e di oggi e della sua leadership incartapecorita, continua ad alimentare la leggenda che “fuori si sta meglio”, che l’Italia “migliore” è quella che se ne è andata o che se ne va (e quelli che restano sono tutti stupidi e corrotti?) e parlandone non fa mai menzione dei veri costi dell’emigrazione (di questa, di quelle del passato e di quelle del futuro), offrendone ai giovani un’immagine distorta e riduttiva, incompleta.

Purtroppo io non ho alle spalle un giornale come Repubblica che metta in moto una “contro-inchiesta” su tutti quei giovani (e meno giovani) che hanno esaurito le proprie chance o la propria pazienza all’estero e che vorrebbero tornare indietro ma non riescono a costruirsene le condizioni (operazione che, come ben sapete, è stata invece fatta per sostenere tesi opposte).

Ho solo la mia conoscenza “empirica” (di migranti italiani ne ho conosciuti tanti qua a Barcellona e non solo) che però mi porta a pensare che di questa tipologia di persone (quelli che all’Estero non hanno trovato nessuna chance in più o molto poco, quelli che vorrebbero tornare ma non possono) ce n’è tanta in circolazione. Ma di questo nessuno parla. Nessuno vuole scoperchiare quest’altra verità, perché scomoda, non creerebbe lo stesso interesse mediatico. Nessuno è interessato a raccontare che ci sono persone in giro per il pianeta che torneranno in Italia con più anni di prima e, spesso, con una professionalità difficile da riciclare (se se la sono fatta questa professionalità, perché questo è un altro degli argomenti da trattare: quanti degli emigrati italiani fanno davvero dei lavori qualificati che gli daranno del valore aggiunto e quanti, invece, non hanno trovato di meglio che lavorare – spesso a tempo determinato – nel settore della ristorazione, nei call center e così via?).

Ho conosciuto ricercatori che, ricerca dopo ricerca, dall’Inghilterra sono arrivati in Spagna (i contratti a volte scadono) dall’Olanda sono finiti negli Stati Uniti, ma adesso, che vorrebbero tornare in Italia, sanno perfettamente che la loro esperienza accademica non verrà tenuta in considerazione. Perché in Italia l’Università funziona in un altro modo e chi se ne va difficilmente ci rientra.

A parte il fatto che anche in Spagna – paese che il marketing politico di Zapatero ha venduto al mondo intero come super progressista, democratico e avanzato (nelle prossime puntate vi parlerei volentieri delle mie perplessità, della questione femminile e del perché ho desiderato così fortemente la presenza, qua, di Lorella) – talvolta le logiche di selezione dei ricercatori universitari ricordano da vicino le nostrane: favoritismi in barba al merito, altro che opportunità in più (si tratta pur sempre di un paese “latino”, cattolico e patriarcale).

E quindi vieni a sapere che, come è successo a un’amica italiana di M., malgrado avesse vinto il concorso per … alla fine il lavoro non le è stato dato perché soppiantata (arbitrariamente) da un autoctono. Le regole del gioco, infatti, sono state cambiate strada facendo.

O quello che è successo alla mia amica L. che, convinta a farsi da parte per favorire una “protetta” (indigena) della docente, è approdata a Barcellona, città in cui il suo contratto scade fra poco tempo e dove molto probabilmente non verrà riconfermata perché c’è già un catalano da “piazzare”. E quindi, dopo 10 anni come ricercatrice all’estero L., che gradirebbe tornare in Italia anche perché stanca di questo paese, non sa come ricominciare in Italia a 40 anni compiuti (perché, vedete, i problemi di integrazione – quella vera, mica da vacanza all’estero prolungata – non son sempre facili da gestire, non è sempre così facile e “divertente” integrarsi. A Barcellona, per esempio, la leggenda vuole che ci si diverta un sacco – forse quando si hanno 20 anni e si è in trasferta per l’Erasmus – poi le cose si complicano. Infatti poi scopri che quelli che “si divertono” quasi sempre non parlano catalano e si muovono in un circuito in cui non ci sono catalani. Voglio dire: vivono in una realtà parallela composta prevalentemente da stranieri, ma non stanno dentro la città ).

Ecco, allora io vi chiedo: perché non si parla anche di questo?

Del resto quello del rientro è un problema sociologicamente conosciuto. Ci sono fior di studi al riguardo, ma a nessuno di coloro che blaterano in TV o a cui si dà importanza mediatica in Italia interessano. Complicherebbero troppo l’analisi del fenomeno (chi si occupa di questo in Italia probabilmente non ha neanche lo spessore intellettuale per farlo) e poi “politicamente” non serve proprio a nessuno. Anzi, abbiamo già tanti disoccupati che non vale proprio la pena (pre)occuparsi in anticipo di quelli eventualmente “di ritorno”. Meglio limitarsi a dire quello che la gente vuol sentirsi dire (Berlusconi docet). Più facile, più comodo, più gratificante e magari ti guadagni anche un posto al sole.

Infine una domanda: non penserete che adesso, settembre 2011, si possano trovare, qua in Spagna, opportunità migliori che nel nostro Paese, in una nazione in cui il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 22%?

I “giovani” italiani arrivati ad ondate negli ultimi 5 anni a Barcellona ad occhio e croce (non ho gli strumenti né la capacità per dare delle cifre certe, anche perché molti di loro non sono neppure censiti e comunque dubito che il Consolato –  se se ne è occupato -divulgherebbe queste cifre) lavorano massicciamente nel settore della ristorazione. Tanti come dipendenti (una ragazza che lavora nel bar sotto casa mia mi diceva proprio oggi pomeriggio: “Sa, siamo un gruppo di almeno 30 amici italiani e lavoriamo tutti come camerieri. Spesso ci domandiamo se ne vale la pena”, e almeno lei non si fa nessuna falsa illusione.).

Altri (forse già troppi) lavorano come imprenditori della ristorazione: hanno fatto lo sforzo di aprire un’attività e adesso Barcellona è strapiena di ristoranti, gastronomie gelaterie italiani al punto che (ce lo diciamo in tanti) non c’è più spazio per nessuno. Ci domandiamo come riescano a sopravvivere tutti, perché sono davvero una miriade (e devono contrastare anche la concorrenza di svariate catene di ristorazione in franchising – che italiane non sono ma fanno finta di cucinare italiano – e che intanto gli sottraggono fette di mercato).

Molti sono anche gli operatori della moda e del design (negozi, outlet, Istituto Europeo del Design).

Poi ci sono quegli italiani che si improvvisano “qualcosa”: 1) insegnanti di italiano (per favore, ditemi dove è tutta `sta richiesta d’italiano. L’italiano non è esattamente la lingua più gettonata del mondo e poi c’è già l’Istituto italiano di Cultura – stendiamo un velo pietoso al riguardo – che organizza corsi di italiano e inoltre l’italiano, oltre che conoscerlo, bisognerebbe saperlo insegnare); 2) traduttori (senza avere né la formazione adeguata né le capacità per farlo. Per essere competitivi, non avendo professionalità da vendere, fanno dumping sulle tariffe – quando sanno che esistono le tariffe – ed hanno distrutto il mercato locale della traduzione); 3) interpreti (spesso “ragazze immagine” alla Fiera di Barcellona, pagate una miseria) -per trattative d’affari, anche in questo caso danneggiando i veri professionisti in loco.

Ci sono naturalmente i dottorandi: alcuni con borse di studio, altri a spese della famiglia (italiana). La città, infatti, presenta una grande offerta formativa (si fa per dire). Master, post-grado, dottorati seri e meno seri in cui si finisce per perdersi: basta che paghi (anche su quest’aspetto, nel mio piccolo, vi potrei raccontare qualcosa che con la VERA formazione professionale ha ben poco a che vedere). Infatti, spesso si vendono sogni in cambio di soldi ( e su questo concordano anche amici catalani che insegnano all’Università).

E ci sono anche italiani con lavori più “professionalizzati” (non che la traduzione o l’interpretariato non lo siano ma, ahimé, sono più facilmente soggetti ad intrusioni illecite), italiani che qui hanno trovato delle ottime e serie opportunità, negarlo sarebbe da stupidi.

Si contano moltissimi avvocati, qualche medico e qualche ricercatore universitario, psicologi e psicoterapeuti, molti architetti (quelli che lavorano sono arrivati in tempi di vacche grasse, quelli arrivati dopo fanno gli “stagisti” post laurea a zero stipendio), pubblicitari, grafici, esperti di marketing, videooperatori, quadri e manager di importanti banche, assicurazioni, grandi imprese italiane (Fiat per esempio) e multinazionali. Ma, generalmente, questi ultimi sono inviati a Barcellona dalla casa madre, l’occupazione non la trovano qui.

E, infine, c’è anche tantissima gente che fa fatica (e non lo si racconta). Gente che vivacchia con il “paro” (come si chiama qui colloquialmente il sussidio di disoccupazione previsto per ogni lavoratore che abbia versato una certa quantità di contributi e che dura 2 anni al massimo) integrandolo con qualche lavoretto in nero (qualche traduzione e affini, tanto per gradire) E così si tira avanti.

In ultimo, un pensiero. Ho visto nei giorni andati, nei vari Tg, un Papi gongolante (adesso molto meno) ad Atreju e pensavo: “sono sicura che questi baldi giovani di destra non ci pensano proprio ad andarsene, dall’Italia. Così come non ci pensano e non ci hanno mai pensato i giovani ciellini”.

Infatti, chi ha un Papi-partito alle spalle viaggia sicuro. I ciellini non hanno (e non hanno mai avuto) problemi di disoccupazione (Compagnia delle Opere docet, e non solo). Però anche a sinistra, non è che le cose siano state gestite molto diversamente in un passato recente, o sbaglio? Forse per questo, si preferisce non parlarne e negare anche l’evidenza, sviando l’attenzione.

E non voglio aggiungere altro. Solo buttarvi lì due concetti chiave: fine del patriarcato e consociativismo. Io credo che c’entrino molto e che questa sinistra (così come è ora) non abbia né i numeri, né la dignità, né la credibilità per cambiare le cose. Perché c’è dentro fino al collo in questo schifo, da tempi immemorabili.

Vi lascio, così come avevo iniziato, con un’autocitazione dal libro di Francesca Prandstraller, giusto per capirci. Triste “è guardare al mio paese con occhi disincantati. Da lontano le cose si vedono e comprendono con maggiore obiettività e chiarezza e io purtroppo vedo una nazione che va a rotoli, alla deriva e in cui tutti (…) si perdono in dispute da quattro soldi, rivolte a salvaguardare le proprie convenienze, i propri privilegi, dimenticando i grandi interessi del paese.

Vedo una società governata da una gerontocrazia, dove fino a 35 anni ti considerano ancora un <<ragazzo>>, dove i posti chiave sono detenuti da ultracinquantenni. Vivo in un paese dove il capo del governo, Zapatero, ha da poco superato la quarantina, mentre in Italia i due sfidanti alle politiche sono dei settantenni! Come potremmo andare meglio? Come si può innovare senza rinnovamento generazionale?”
E adesso aggiungerei: come si può rinnovare se rimangono solo i giovani di Atreju e i figli di papà di una certa classe radical-chic di sinistra che non ha nulla da perdere, né restando in Italia, né facendo finta di andarsene all’estero?
Se Lorella avrà la voglia e la disponibilità di ospitarmi ritorneremo su tanti dei punti qua semplicemente sfiorati.

Ripeto: certamente non sono portatrice di verità inconfutabili. Sicuramente molte delle cose che dico sono opinabili e integrabili, ma spero solo di aver contribuito ad avviare un dibattito più ampio ed onesto, che tenga conto anche di altri aspetti del problema.
Infatti, tanto per cambiare, giusto qualche giorno fa ho appreso che un programma di radio 24, “Giovani talenti” sta cercando, su Barcellona, giovani “under 40” (e sarebbero giovani? e poi non si può dire in italiano: “sotto i 40”?) con i soliti “profili” e “lamentatio” da “geni incompresi in fuga” per raccontarci le solite cose trite e ritrite… Vedremo cosa ne verrà fuori. Intanto so che passerà di qui una troupe di Sky e che anche Riccardo Iacona, il passato agosto, ha fatto un’incursione a Barcellona, per il suo programma “Presa diretta”. Racconteranno qualcosa di diverso? Ci sarebbe da augurarselo, ma personalmente lo dubito.
Per buttarla sul ridere vi informo che persino Televisión Española (anche i giornalisti, di qua non scherzano quanto a capacità di analisi ed “originalità” di pensiero), sta cercando soggetti da intervistare per un reportage sulla nostra comunità a Barcellona (sanno già chi vogliono portare come esempio, senza fare un lavoro serio di ricerca e spacciano questo lavoro come “reportage”). In concreto cercano:

Doctor/a o enfermero/a
-Persona de unos 35 años que ocupa un cargo medio en alguna empresa y que haya formado familia en Catalunya.
-Joven que viva en algún barrio animado de la ciudad de vertiente más artística, que vaya en bici, etc. (“Más hippy”)
-Regente de un local de restauración, tienda, estilista o personal shopper. Es decir, persona emprendedora que haya decidido montar un negocio en Barcelona, atraído por las posibilidades de la ciudad.

Quindi se siete un po’ hippy o sbarcate il lunario a Barcellona facendo il personal shopper, fatevi sotto! Secondo Televisión española rappresentate una delle tipologie dell’emigrante italiano, eccentrico, bohemien e con un tocco “glamour!” Cucina e moda, spaghetti, pizza e mandolino! Non c’è che dire, questa idea potrebbe essere perfettamente ripresa dal Venerdì di Repubblica.
Per il momento, un caro saluto

Giusi Garigali