Finalmente mi ritaglio del tempo per scrivere.

Avrei voluto essere più costante, invece qui il tempo vola, diventa difficile trovare lo spazio per fare tutto. Quindi: oggi meno studio e più blog! Meno impressioni, stavolta, e più riflessioni.

Sono quasi due mesi che sono ad Irkutsk, in Siberia, e tutto procede a meraviglia. La mia vita diluita tra nazionalità (in)definite, ma con un patrimonio culturale preciso alle spalle, diventa ogni giorno più entusiasmante. Cibi, odori, puzze, colori, tratti, nella mia testa si sta mischiando tutto, tutto sta acquistando un posticino.

Sarà durissima andare via da qui.

Ma prima di andarmene, rispetto la promessa e scelgo un paio di realtà di cui mi piacerebbe parlare, eventualmente discutere con voi.

Prima di tutto: URSS e Russia, Russia e URSS, Russia sovietica e tutto ciò che viene dopo … I retaggi ci sono, spesso sono anche forti, ma mi sembrano ancora più forti i colpi di reni che i giovani, più di tutti, provano a dare per rimettersi in moto, conoscere, viaggiare, aprirsi, capire. Ancora meglio: capirsi. Perché la Russia ha sempre bisogno di capirsi, di decifrarsi: quasi mai dall’esterno, tra l’altro, ma sempre da dentro. I russi hanno bisogno di capire i russi e la loro realtà. Dopo la fine del periodo sovietico è diventato indispensabile per la nazione farsi – no, non un esame di coscienza, quello mai – almeno qualche domandina. Come scrive Anna Zafesova, dopo settant’anni in cui i russi avevano vissuto sottosopra, convinti (in senso attivo e passivo) di essere i più forti e i più giusti, negli anni ’90 vengono rimessi coi piedi per terra, e viene chiesto loro di accettare e ripetere che no, non sono stati dei santi, che hanno fatto un mare di cavolate e ora si ritrovano a pagarne altissime spese.

Questa è stata l’analisi più attenta e coinvolta che ho incontrato in questi anni di studio sul passaggio che la Russia vive ormai da vent’anni. Nuove realtà, economiche ma non solo, sono esplose nella nazione: hanno preso a convivere i resti delle vecchiette che vendevano una patata e una carota fuori dalle metro con i flashmob, per intenderci. E’ stato un choc enorme, di cui tutti coloro che si avvicinano alla cultura russa di oggi devono necessariamente tenere conto, altrimenti diventano facilissimi giudizi di merito – della serie: “ma state messi ancora così?” Intendiamoci, io lo penso spesso sulle prime, ma poi mi sforzo di capire il contesto, di osservare, e allora individuo qualche punto di ancoraggio.

Esempi. Nel bagno – (de)cadente della mia università non esiste carta igienica, solo carta di quotidiani vecchi. E allora ti chiedi: scusami, università, so benissimo che sai che altrove si usa la carta igienica, perché ti ostini ad usare il giornale? Oppure negli alberghi trovi una roba simile a cartone, che non è piacevole, ecco, e ti ridomandi: ma scusami, se tanto dovete comprarla, perché non ne comprate una decente? Ho letto di recente che nel museo Puškin di Mosca esiste OGGI un rotolo di carta igienica all’entrata del bagno, ognuno prende la quantità che crede gli servirà. Parliamone.

I nomi delle strade? In questa città esistono solo Via Lenin, Via Karl Marx, Via Gagarin, Piazza Kirov e simili. Indicativo, no? Per non parlare delle statue di Lenin che continuano a sopravvivere e ad essere osannate in ogni parte della Russia, anche qui. Pochi giorni fa una mia docente, sulla sessantina, molto in gamba, sosteneva che oggi non esistono più i valori. Quando lei era bambina, invece, suo nonno la svegliò alle cinque del mattino per andare a fare la fila per l’apertura del mausoleo di Lenin! Quelli sì che erano tempi! E lei insegna in un’università linguistica per stranieri. La stessa che afferma che l’aborto è un’aberrazione e che ci fa usare un manuale sì interessante, ma in cui l’autrice non fa che mettere in guardia i parlanti russi dall’uso di prestiti stranieri, che quasi sempre “impoveriscono”, “sfioriscono” la lingua russa. Non è innocente neppure questo.

Tutto ciò sembra poter essere commentato soltanto con un “come state messi male”, e invece sono convinto che non sia vero, né tantomeno corretto. C’è un passato fortissimo che tira i russi verso di sé, li tiene, li tra-ttiene, tuttavia la Russia sta provando a suo modo ad andare avanti, come sempre a singhiozzi: picco, stagnazione, picco, stagnazione. E’ un dovere di tutti, degli slavisti in primis, ricordare che l’enorme parentesi sovietica ha lasciato tracce radicali nella cultura e società russa, ma non è l’unica Russia. Le ha dato un volto dominante, di certo, non la si può trascurare quando si ha a che fare con questa cultura, ma sarebbe un vero peccato non apprezzare, sostenere e rispettare i segnali che vedo arrivare oggi dai giovani – anche se c’è da dire che di sforzo ne fanno poco, regna un fatalismo spaventoso, ma proverò a parlarne un’altra volta, non posso liquidare così il discorso. Ricordo l’intervento di un ragazzo in occasione di un incontro all’Accademia francese della città che, commentando un documentario sulla transiberiana girato da un regista francese, disse inviperito: “Ma per lei esistono solo le babuške?”, ovvero le vecchiette che ti vendono pesce cotto alle stazioni del treno. Questa è un’immagine che esiste ancora in Russia, ma sta sparendo, e sarebbe ora di cominciare a considerarla come un elemento di transito, non più come la faccia della Russia. Il pittoresco può fare danni, insomma. Non fa bene all’identità del paese, credo.

La stessa definizione di Russia post-sovietica è discutibile – non ringrazierò mai abbastanza la mia prof di letteratura per avermi costretto a rifletterci: post- vuol dire che c’è un pre-, e che quindi l’esperienza sovietica è il modello, e in funzione di questo tutto si muove.

L’Italia.

Ve lo dico chiaro e tondo: vi sentite uno schifo nel nostro paese e avete bisogno di sentirvi apprezzati/e come italiani/e? Venite a Irkutsk, due giorni e passa tutto.

Qui la cultura italiana, in tutte le sue forme, regna ancora indiscussa. Certo, dovrete accettare di sentire cose come “il secondo personaggio italiano più famoso dopo il Papa è Celentano”, ecco, però potete non farci troppo caso e via.

Ammetto che i simboli di riferimento sono alquanto vetusti, si va da Celentano a Mina, dai Ricchi e Poveri al Papa; rispetto alle capitali la moda italiana mi sembra sì conosciuta ma meno ambita – meno soldi, di sicuro. Però c’è un po’ di tutto.

Io e la mia amica non dimenticheremo mai il primo giorno alla mensa dell’università. Seduti da soli a mangiucchiare, due ragazze russe si avvicinano con due occhi come due pozzi e ci dicono “Italiani? Vi abbiamo sentito parlare in italiano, possiamo sederci con voi?”. Da lì è cominciata la fine: ogni giorno dobbiamo camminare con la folla di gente che saluta, chiede, si presenta, gente ormai amica che ci chiama, ci invita, ci presenta altra gente, e così a catena. Pure per uno come me che ama la folla a volte è dura, non si ha mai un attimo per sé, da soli, se sei straniero – se italiano ancora di più, ho l’impressione – devono sfruttare l’occasione e prendere tutto quello che puoi dare loro finché ci sei. E parliamo di ragazzi e ragazze che studiano lingue, spesso europee, abituate a viaggiare e a vivere in Europa! Eppure non basta. Tutti credono che gli italiani e le italiane siano simpatici, aperti, solari, mafiosi, latin lover, emancipati, liberi. E far capire loro che proprio proprio così non è costa fatica, ma poi ce la si fa.

Non c’è dubbio: qui siamo di gran lunga gli studenti più preparati e completi. Senza ombra di dubbio. I prof sono stupiti dalle nostre conoscenze. Questo conferma che sì, le nostre accademie sono prive di ogni concetto di organizzazione e struttura, ma la qualità del nostro studio è ancora alta, e fa una certa invidia.

Sono sicuro che se in Italia riusciranno ad emergere tutti i talenti che abbiamo, che siamo, torneremo ad essere un esempio.

Spero di contribuire nel mio piccolo, perché anche da qui io penso all’Italia, sempre, a come è messa male e a quanto sana e forte può tornare ad essere.

Io la mia fiducia ancora gliela do.

 

Amedeo