Pillole dalla Catalogna

Oggi, mercoledì 28 marzo, leggo su La Vanguardia – il quotidiano più diffuso in Catalogna – l’intervista ad Augusto Cury, psichiatra brasiliano e scrittore/divulgatore popolarissimo nel suo Paese.
La posizione in cui appare l’intervista è privilegiata: in IV di copertina, nella rubrica più seguita dell’intero giornale, “La contra”. Tutti i lettori de La Vanguardia gli avranno dedicato almeno un sguardo… E la considero una buona cosa.

E che racconta, dunque, Cury (che peraltro è uomo) alla Contra? Parla del suo ultimo libro: La dictadura de la belleza y la revolución de las mujeres (Zenith), in cui ritroviamo svariati concetti molto noti alle lettrici e ai lettori di questo Blog.
In questo saggio Cury denuncia, infatti, l’esistenza di una “dittatura” a livello mondiale: la dittatura del canone di bellezza UNICO, del canone di bellezza “Barbie”, che corrisponde ad una donna con le misure e le fattezze di una bambola – una donna, pertanto, irreale – con cui, però, le donne in carne ed ossa si misurano…
E cosa propone come antidoto a questa tirannide? Guarda caso proprio un’educazione alla libertà dell’individuo, all’affermazione di un proprio criterio personale, alla consolidazione di un amore e rispetto di sé fuori dagli stereotipi più cristallizzati.
E se ci si ferma a riflettere, non si può che essere d’accordo: solo la libertà di ogni individuo, sommata a quella di altri, può sconfiggere l’autocrazia, il pensiero unico. Non esistono scorciatoie. È un cammino lungo ma inevitabile.

Secondo Cury, al giorno d’oggi, le donne di tutto il mondo sono schiavizzate da un’immagine interiorizzata del “come vorrebbero essere”, un’idealizzazione arbitraria che spessissimo le mortifica. Una decina di top model e affini – quasi tutte, peraltro, di etnia caucasica – sono assurte ad unico specchio di riferimento per 3 miliardi di donne molto diverse fra loro per età, fisionomia, colori, razza, caratteristiche…
Tutto questo, secondo Cury, porta a delle gravissime conseguenze, a quello che egli definisce un vero e proprio “massacro psichico”.
Racconta infatti che, secondo un’inchiesta rigorosa, solo il 3% delle donne si sente a proprio agio nel proprio corpo: una vera e propria aberrazione.
Ed aggiunge che, in tutto il mondo, sono 600 milioni le donne che contrastano questa non accettazione di sé con disturbi dell’alimentazione di vario genere: bulimia, anoressia e altri disordini alimentari…

Ma allora, gli chiede l’intervistatore:

D. “(…) Non vorrà che io rinneghi la bellezza, non vorrà farmela condannare?”

Risponde C: “Non si tratta di condannare la bellezza, assolutamente. Si tratta di non sottometterla a certo ridicolo riduzionismo, a un canone limitatissimo, ingessato.”

D.E come concepisce, lei, la bellezza?”

R. “La bellezza non è rappresentata da dieci donne. La bellezza sta dappertutto. La bellezza si trova in tutte le donne. Dobbiamo, però, ripulire il nostro sguardo, educarci a scorgerla.”

D.Mi guidi dunque lei alla scoperta di questa bellezza.”

R. “È attorno a lei, si trova in qualsiasi particolare. In qualsiasi dettaglio del suo corpo. In tutti i corpi. In ogni persona. Ogni persona è singolare, unica: bella (…)”

Ed ecco qui il link, per chi desiderasse leggere l’articolo per intero.

Ma mentre alcune donne (soprattutto quelle che appartengono al cosiddetto “Primo mondo”) finiscono addirittura col maltrattare il proprio corpo nel tentativo di aderire ad inarrivabili canoni estetici, in altre parti di mondo accadono cose spaventose, sempre sul corpo delle donne, delle quali non sempre si parla abbastanza e per questo ve ne riferisco, perché penso che la mia funzione sia anche quella di sottoporvi notizie che arrivano dalla Spagna, che a me paiono significative per il nostro lavoro di riflessione collettiva, e delle quali difficilmente verrete a conoscenza affidandovi solo alle notizie diffuse in Italia.

Giorni fa – il 13 marzo, per l’esattezza – sui giornali spagnoli è apparsa la notizia del suicidio di una giovane ragazza marocchina di 16 anni, Amina, obbligata a contrarre matrimonio riparatore, a 15 anni, con il proprio violentatore.
Pare che episodi di questo tipo non siano rari nel Marocco rurale, dato che la legislazione locale offre tuttora la possibilità, al violentatore, di evitare il carcere nel caso in cui si mostrasse disponibile a sposare la propria vittima, cancellando così l’onta procurata alla donna e alla sua famiglia. Il classico matrimonio “riparatore”, il cui valore è, purtroppo, ancora fortemente interiorizzato nella mentalità popolare.
Se i media ufficiali non ne hanno parlato moltissimo (in Italia ho letto, però, che la notizia è stata ripresa dal Blog zeroviolenzadonne), il web, almeno qui in Spagna, si è mobilitato ed è tuttora (7 maggio) possibile firmare la seguente petizione per porre fine a questa follia.

Eccovi il link che spero sarà ancora attivo al momento della pubblicazione del presente post.
E questo il testo della petizione:
“Amina, a 16 year old girl from the small town of Larache in northern Morocco has committed suicide by ingesting rat poison.
This young girl was married at the beginning of last year Mustapha, 10 years her senior, in very special circumstances. Mustapha has violated it.
The family of the young victim complained to the prosecutor of Tangier for rape.
And further to the mediation of knowledge of both families, the family court judge decided to declare her fit for marriage at a young age, to compensate for the injury!
A common practice in the Moroccan courts.
Morocco has ratified many international conventions on the rights of women and children, it is now essential that this meaningless practice disappears.
A rapist should be punished under the Criminal Code, the raped woman is THE victim, helping her allowing her to benefit from real legal, psychological, educational and financial support if necessary.
A man who has dared to violate a woman can not in any way enforce or respect her dignity, encouraging this practice by giving it a legal veil does not make sense.
Amina was one of the known victims of this practice, it will be the last thanks to you.”

Infine, sempre in tema di corpo delle donne, è di qualche tempo fa (22 marzo) anche la notizia che l’Imam di Terrassa, brutto paesone in provincia di Barcellona, è stato inquisito per “incitazione alla violenza e alla discriminazione contro le donne”.
Il nostro, tale Abdeslam Laarussi, pronunciò le seguenti parole in due sermoni, quello del 16 dicembre 2011 e quello del 20 gennaio 2012, in una delle più frequentate moschee di Catalogna, nella quale si recano circa 1.500 persone a pregare, e per questo è indagato dalla locale magistratura.

Dal Sermone del 16 dicembre 2011:
“Parleremo adesso di alcuni problemi con cui, a volte, ci dobbiamo confrontare in casa e vediamo quali sono le soluzioni che l’Islam ci propone (…) L’uomo deve insegnare alla sua sposa quali sono gli obblighi e i doveri che Dio ci ha dettato. Se non li compie, il passo seguente è che l’uomo lascia da sola la donna nel letto, negandosi a rapporti sessuali (…) Ma se anche questo non funziona bisogna ricorrere ai colpi. Come sono questi colpi? Non sono quelli che provocano fratture, né che fanno scorrere sangue, non sono colpi in faccia, no (…) Devono essere discreti, nessuno deve esserne a conoscenza al di fuori dalla vita coniugale (…) Una delle cause di divorzio è che la donna va a lavorare e diventa una donna indipendente, con il suo conto in banca e i bambini rimangono senza educazione. Questa donna che ha una propria indipendenza, che ha soldi e lavoro, guarda l’uomo con disprezzo. L’uomo (…) deve lavorare in casa, preparare da mangiare e fare il bucato e questo porta ad un rottura e a un conflitto”.

Sermone del 20 gennaio 2012
“… Dovete sapere fratello musulmano, sorella musulmana che questa terra (la Spagna, Ndr) è dotata di leggi contrarie alle leggi islamiche. Queste leggi proteggono… Chi proteggono? Proteggono la donna, quello che definiscono i diritti della donna (…)”

Questo signore è comparso venerdì 4 maggio davanti al giudice competente. Nella propria dichiarazione ha espressamente condannato la violenza sulle donne ed ha affermato che le sue parole sono state mal interpretate. In ogni caso la giunta direttiva della Moschea di Terrassa lo ha sospeso dall’attività e tale sospensione durerà fino a quando la giustizia non avrà fatto chiarezza su ogni aspetto della vicenda. Siamo in attesa.

Vorrei concludere, se possibile, con un po’ leggerezza, citando Caitlin Moran, opinionista di The Times e una sua battuta tratta dal suo ultimo libro How to be a woman, da cui si deduce che neanche le tanto mitizzate (da alcune di noi) donne anglosassoni sono poi così libere ed esenti dal subire – ed aderire – a stereotipi di genere:

“There’s never been a better time to be a woman: we have the vote and the Pill, and we haven’t been burnt as witches since 1727. However, a few nagging questions do remain… Why are we supposed to get Brazilians? Should you get Botox? Do men secretly hate us? What should you call your vagina? Why does your bra hurt? And why does everyone ask you when you’re going to have a baby?”
Trovo purtroppo infelice la traduzione del titolo del libro della Moran in italiano: Ci vogliono le palle per essere una donna. Ma perché questo richiamo costante agli attributi maschili quando si allude a donne con coraggio? Perché semplificare sempre con messaggi banali, come se il riferimento al maschile “impreziosisse” e quasi “dignificasse” rendesse più interessante una riflessione sulla femminilità (anche quando il registro è ironico e non impegnato)?
Credo che chi ha scelto questo titolo sia molto indietro rispetto al livello di coscienza e sensibilità raggiunte dalle donne del nostro paese (almeno spero). Che ne dite?