Cari amici e care amiche,
come state?

Oggi a Parigi il cielo e grigio e grossi nuvoloni si spostano veloci, spinti da un vento caldo che sembra scirocco e che mi ricorda Venezia.
Io sto bene e se non ho avuto il tempo per scrivere la mia terza lettera per il blog del Corpo delle donne è proprio perché il mio tempo libero ultimamente si è ridotto drasticamente.
Sto lavorando moltissimo, e in questi mesi mi sento completamente assorbita dal mio nuovo lavoro come anche dall’esplorazione di Parigi, così instancabilmente caotica, vivace e stimolante, una città che sembra non riposare mai. Le mie giornate sono piene di sfide, corse e spostamenti, una costante ricerca di equilibrio nella nuova routine. A lavoro sto imparando molto, e questo mi riempie di gioia oltre a farmi sentire più viva e utile.
Mi succedono però anche cose strane, tragicomiche direi, del tipo: andare ad una riunione di lavoro e pensare di aver sbagliato sala solo perché c’erano a mio parere troppe donne giovani sedute intorno al tavolo. Triste e divertente al contempo. Ma effettivamente il mondo dei musei e delle istituzioni culturali a Parigi testimoniano una presenza femminile di quantità e qualità, e questo mi rassicura. Ce la faremo anche in Italia, dobbiamo solo continuare a crederci e a lottare.

Tornando al mio microcosmo, le vacanze di Natale (oramai lontane) dalle quali io e Tommaso siamo tornati carichi di pesantissime valige farcite di grana e delizie nostrane consegnateci dalle nostre mamme, sono state un’occasione per fare un punto della mia situazione personale.
Negli ultimi mesi credo di aver preso maggiore velocità e precisione nel parlare francese; non so se avevo avuto modo di puntualizzarlo, ma non avevo mai studiato francese in vita mia prima di arrivare qui. Non è stato quindi scontato né facile trovarsi nella condizione di adulta a imparare una lingua straniera facendo fronte all’esigenze e urgenze, non solo lavorative, del quotidiano. Per fortuna la televisione e le trasmissioni radio francesi sono straordinariamente interessanti e mi hanno aiutata nel fare un esercizio di apprendimento quotidiano, al quale mi sono applicata con irreprensibile ostinazione. Uno dei lati positivi di un’esperienza all’estero, forse quello più prezioso in quanto investimento nel futuro, è proprio quello dell’apprendimento di un’altra lingua. Investimento professionale, certo, ma anche personale; leggere Simone De Beauvoir in lingua originale non ha prezzo!

Sempre per restare in tema di lingue straniere, in questi ultimi mesi mi sono sorpresa nel constatare che i più tolleranti nei confronti del mio accento italiano sono stati dei bambini. Dove lavoro ne incontro molti, occupandomi anche di attività didattiche destinate al pubblico scolastico.
Alcuni di loro mi hanno preso per argentina, altri per spagnola. Un giorno, qualche mese fa, un bimbo di 7 anni mi ha cortesemente chiesto da dove venisse questo suo piccolo accento così carino. Non sarà per caso tedesca?. Ho risposto ridendo di no, ma una volta letta sul suo volto la delusione, osservandolo con maggiore attenzione, ho capito che il tedesco era lui: biondissimo e occhi di ghiaccio. Ho colto l’occasione per dirgli quanto amo la sua terra e così è nata una curiosa conversazione in cui ci siamo scambiati qualche frase in tedesco circondati dagli occhi sgranati, incuriositi e invidiosi, dei suoi circa 30 compagni di classe.
Ma perché ve lo racconto? Perché uno degli aspetti che amo di più di Parigi è la mescolanza culturale in cui immigrazioni molto diverse coesistono spesso pacificamente. Vedo questa mescolanza e coabitazione come una lezione di civiltà, lezione che spesso in Italia risulta impossibile a causa di politiche culturali inadatte e inadempienti e a causa di un provincialismo spaventoso che costruisce sulla paura e sul rifiuto il rapporto con ogni tipo di diversità.

Quando ho iniziato a lavorare qui ero inquieta, insicura; temevo che le insegnanti potessero provare disappunto nei confronti di qualche mia scivolata grammaticale, sentivo la pressione di dover celare la mia italianità, sapevo di non dover mostrare la mia vulnerabilità e fragilità di straniera.
Devo dire, alla faccia dei mille stereotipi che vogliono i francesi (e soprattutto i parigini) antipatici e intolleranti in materia di lingua, di essere stata invece accolta, almeno fino ad ora, con rispetto e cortesia molto più di quanto non mi aspettassi. In tal merito, mi ha colpito profondamente un discorso fattomi qualche mese fa da un’insegnante delle elementari: la presenza di una persona competente, professionalmente avviata in un paese che non è quello d’origine, darà un’immagine positiva dell’immigrazione, e il sentire un accento diverso non potrà che sortire un effetto positivo sui bimbi o ragazzi, perché li porterà ad allargare i propri orizzonti, ad essere più tolleranti e ad accettare con rispetto e magari affetto colui che è portatore di una diversità (culturale, linguistica etc etc). Non vi sembra un discorso semplice quanto illuminante?

Penso quindi all’Italia, dove quando si parla di stranieri e di immigrati lo si fa quasi sempre con un’accezione purtroppo dispregiativa, come fosse una nota di demerito. Al contrario, quello che amo di più di Parigi, e che mi preme trasmettervi attraverso queste lettere, è proprio la diversità che respiro. La diversità dei modi di essere, di vestire, diversità nelle possibilità di cosa mangiare, di cosa vedere, diversità fra me e la bellissima ragazza africana seduta davanti in metro, diversità fra la mia vicina di casa indiana e quella cinese che abita al primo piano, che parla un francese invidiabile e che ha chiamato suo figlio Bastien.

Prima di lasciarvi vorrei raccontarvi un’ultima cosa, che riguarda ancora una volta il mio lavoro.
In dicembre mi è stata affidata per una settimana una stagista speciale, una ragazzina di 14 anni. Sì, è stata l’occasione per scoprire che in Francia, al terzo anno delle medie (che qui si chiama collège) gli studenti sono costretti a scegliere un’impresa presso la quale fare uno stage “di osservazione” di una settimana. Preparandole una postazione alla quale lavorare, sorridevo per la perplessità. Una stagista di 14 anni? E cosa potevo o dovevo farle fare? Che senso avrà mai chiudere le scuole a questa età e far andare i ragazzi a fare uno stage quando, sarcasticamente ho pensato, tempo per fare stage ne avranno anche troppo nella vita? Mi sono dovuta ricredere.
Queste prime esperienze nel mondo del lavoro sono ben organizzate e efficaci. Permettono ai ragazzini di farsi un’idea di cosa c’è dopo la scuola, li responsabilizzano nelle loro scelte per il futuro. E devo dire che si è trattato di un’esperienza formativa anche per me. Lavorare accanto ad un’ adolescente piena di entusiasmo, rispondere alle sue domande e curiosità, ascoltare le sue idee mi ha divertita e riempita di energia. E, soprattutto, ho pensato a quante energie sprecate. Quanto idiota e controproducente è non valorizzare i giovani nel mondo del lavoro?

Proprio in quei giorni, aspettando la metro, ho visto e fotografato il cartello che vedete postato qui. Si tratta della pubblicità di uno dei tanti saloni di orientamento professionale che qui organizzano per i giovani che stanno terminando le scuole. Nel cartellone c’è scritto ” Se mi cerchi, mi troverai”. Allude a un’occupazione, ovviamente, ma la protagonista parla in prima persona singolare. In città circolavano due versioni di questa pubblicità, in entrambe c’era una donna. Il lavoro è donna, ho pensato. E questa donna del cartellone è una donna reale, un viso e corpo autentici con tanto di nome e cognome. Bello! Importante! Incoraggiante per le ragazzine che lo vedranno, no?
Allora ho pensato a me, alla giovane stagista, alle mie amiche e a tutte quelle donne che meritano di essere gratificate e messe in condizione di valorizzare le loro competenze in campo professionale. Ed è stato questo il primo desiderio che ho espresso per il 2012.

Un caldo abbraccio da Parigi,
à bientôt !

Giulia