Carol De Assis ci racconta della violenza di genere vista dal Brasile.

Care tutte e cari tutti,
ho una carissima, amatissima amica, di quel tipo di persona che ispira ammirazione e che mi rende molto lusingata della reciprocità dei nostri sentimenti. Una donna bella, intelligente, interessante e cosciente del suo valore – che non è poco. Questa mia amica, quando ci siamo conosciute, aveva un ragazzo. Aveva 21 anni e loro eravano insieme già da due anni, e col tempo e con la prossimità ho visto quanto era un uomo carino, intelligente e interessante anche lui, ed ero felice di vederli insieme, due belle persone e che mi piacevano tanto.
Ecco che dopo qualche mese di amicizia, lei ha iniziato a lamentarsi di lui con me. “È molto geloso”, mi diceva. “Litighiamo tutto il tempo, se la prende con qualsiasi uomo con chi io parli, e mi rompe le scatole ogni volta.” A me è sembrato strano che quell’uomo sempre sorridente, sempre di buon umore, con un animo così leggero, fosse dato a una gelosia patologica, come me lo diceva la mia amica. Provavo a darle dei consigli: “magari se provi a fargli vedere come ti fa male e come non c’è niente di cui essere geloso…” “Certo, ci provo, devo avere pazienza…”
Col tempo ci siamo avvicinate sempre di più, e mentre la sua fiducia in me cresceva, le storie diventavano sempre più pesanti: “Si arrabbia sempre… Ha un animo violento… A volte, mentre litighiamo, sferra dei pugni sul tavolo, sui muri, si fa pure male.” Mentre me lo raccontava il suo sguardo si spegneva; lei guardava il pavimento o i suoi piedi, parlava piano e si poteva sentire l’angoscia nella sua voce. Dentro di me ha cominciato a suonare l’allarme: PERICOLO. Il racconto della mia amica mi sembrava molto familiare. Avendo visto mia madre subire violenza fisica e psicologica dalla parte di mio padre; essendo pure io e mia sorella vitime di un uomo che ci ha usato, le sue proprie figlie, per provocare panico e dolore nella donna a chi diceva di voler bene e che osava non voler più il suo amore, conoscevo bene la brutta fine a che poteva arrivare quella storia.
Ma io rimanevo sempre sbalordita e non sapevo bene come reagire o cosa dire. Facevo ancora fatica a credere che quel ragazzo fosse capace di andare oltre le discussioni verbali. E lei ripeteva sempre: “mi ama, io so che lui mi ama. Non so perché agisce così… Forse è stressato a causa del lavoro, o perché ha litigato con suo padre, o perché ha dei problemi con la macchina… Comunque, gliene parlerò, stai tranquilla, gliene parlerò.”
Qualche giorno dopo è venuta da me; ho aperto la porta, è entrata ed è andata dritto a sedersi sul divano. Indossava un golfino molto carino; l’ha tolto ed eccoli: tanti ematomi bruttissimi sulle sue braccia. “Ma che è successo?”, ho chiesto senza voler credere in quello che vedevano i miei occhi. “Carol”, mi ha detto, stupita, “me ne sono appena accorta: io sono una di quelle donne. Quelle che si fanno picchiare dai compagni e che cercano di giustificarsi. Aiuto.”

Può sembrare banale ma questa fu la prima volta in cui ho saputo di una mia amica, una mia coetanea, aver vissuto qualcosa del genere. Ho sempre pensato che la violenza “passionale”, come ogni tanto la chiamano qui in Brasile, fosse roba da coppie adulte, da rapporti logorati dal tempo, da uomini delle caverne, proprio. Rifiutavo tanto l’idea che non ho capito la gravità della situazione, oppure non ho voluto capire, e non ho fatto tutto ciò che potevo fare per aiutarla. Parlandone con qualche amica, le stesse storie si ripetevano spesso: “eh sí, una volta mi ha spinto contro il muro”, “una volta mi ha presa per il braccio e mi ha scossa”, “una volta ho detto di non voler fare l’amore e mi ha forzata”. Tutti rapporti leggeri, tra due giovani adulti e a volte anche tra due adolescenti, segnati da una violenza – anche se in misura minore – piuttosto simile a quella che ho osservato nel rapporto dei miei genitori.

Un anno dopo, ho letto “Malamore”, di Concita de Gregorio. Con l’espressivo sottotitolo “Esercizi di resistenza al dolore – Le donne, i loro uomini e la violenza”, il libro di de Gregorio mi ha colpito profondamente. Le sue storie reali e i piccoli e potenti interventi dell’autrice sono belli e tragici nella sua banalità. Uno dei racconti del libro che mi è piaciuto di più è proprio il suo primo: “La rateta”. De Gregorio ci parla di una storieta della sua infanzia, intitolata “La rateta presumida”, in castigliano; ovvero “la topolina presuntuosa”, in italiano (l’ho pure tradotta in portoghese e l’ho fatta leggere ad un’altra amica, che si trovava in una situazione simile a quella della topolina). Allora: c’era una volta una topolina che, mentre scopava le scale di casa, trova un soldo e decide di comprarsi “un nastro rosa su cui l’amor si posa”. Appena si mette il nastro sulla coda, appaiono i maschi, che fanno la fila per provare a conquistare l’amore della topolina (parliamo qui del corpo delle donne: secondo de Gregorio, il nastro può essere “la scollatura, il seno nuovo, le labbra tumefatte: i tempi cambiano ma il senso è quello”). La topolina decide di fare uno test: chiede a tutti cosa faranno di notte (brava!) e chiede anche di sentire la loro voce. Passa il cane, l’asino, il gallo. Niente. Arriva il gatto, “mellifluo, velutato, seduttore”, e fa miao. La topolina si innamora subito: “eccoti, sei tu il mio amore!” Gli amici cercano di avvertirla: “sei pazza, è un gatto, ti mangerà”. Lei irremovibile: “questo gatto mi ama, mangia gli altri topi ma non mangierà me, fidatevi. Sarò la prima topolina a domare un gatto”. Si sposano. Il marito si avvicina alla moglie, ma non per baciarla: senza esitazione, gnac, la mangia.
Secondo de Gregorio, la storia ci avverte che “non esistono gatti vegetariani”, e che “esistono poi, in numero enorme, topine presuntuose (…), che credono di cambiare i gatti  in topi, di essere più forti di loro. Più pazienti, più abili, più ostinate. Più lungimiranti, più generose, più sensibili.”

Malgrado la grossa semplificazione di una situazione che di solito si presenta in contesti molto più complessi e va molto oltre il manicheismo “gatto-topo” (per non parlare di come la favola ci vuole convincere della leggera colpevolezza della topina; in fin dei conti, è stata lei a cercare la sua dannazione, vero?), la storieta mi ha colpito. Anche se non ho mai subito nessun tipo di violenza fisica nei miei rapporti, pure io ho già fatto la topina presuntuosa, come l’hanno fatta parecchie amiche. Questa mia amica di chi ho appena parlato per fortuna ha avuto la forza e il modo di uscirne prima di fare la fine della topina. Purtroppo in tante non ne hanno nè una nè l’altro, e si fanno mangiare da gatti seduttori che difficilmente diventeranno qualcos’altro.

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Vi scrivo sotto l’impatto dello scorso 25 novembre, la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e della storia di Adama, una donna migrante rinchiusa nel CIE di Bologna perché ha avuto il coraggio di denunciare il suo ex-compagno, che l’ha derubata, picchiata, stuprata e ferita alla golla con un coltello. Qui in Brasile, una donna è uccisa ad ogni due ore, e cinque donne sono aggredite in modo violento ogni due minuti. Poco tempo fa, l’08 marzo scorso, un blog femminista brasiliano ha proposto una raccolta di testimonianze delle sue lettrici intitolata “Ogni donna ha una storia dell’orrore da raccontare”. Donne di tutte le razze, classi sociali ed età condividono questo pesante fardello. Secondo me bisogna sempre (come ce lo dice con ragione Lorella) iniziare dai ragazzi e delle ragazze; anzi, dai bambini e dalle bambine, perché è proprio in quel momento che il maschilismo e il patriarcato mettono le sue radici nei nostri cervelli.

Vi segnalo un video che trovo simpatico, semplice e efficiente nel trasmettere il suo messaggio. È una pubblicità della campagna “Reacciona Ecuador: el machismo es violencia”, un’iniziativa del governo di quel paese che sin dal 2008 porta avanti la lotta contro il maschilismo e le sue violenze: http://www.youtube.com/watch?v=NTxUWQ2IE6s  

Vi saluto da una Rio che si lava di pioggia – già da un bel paio di settimane – per ricevere l’estate. Spero che l’inverno che sta per arrivare in Italia, invece di farvi intorpidire, vi possa portare uno shock di coscienza, di quelli ben potenti, da far svegliare l’anima e il cervello per questo tempo di cambiamenti tanto attesi e necessari.
A presto,
Carol