Non so voi, ma io ho ormai l’allergia agli slogan ipercitati tipo “yes, we can”, “un altro mondo è possibile” e così via.

Il problema nasce dall’abuso che se ne fa.

“Yes, we can” è nato per raggiungere un obbiettivo fino a tempo fa impensabile: un presidente nero e democratico alla Casa Bianca. Poi però l’abbiamo visto usare da parte di molte aziende per stimolare i propri dipendenti a superare la crisi, a farsi carico del raggiungimento di obiettivi difficili. E allora “Yes we can” ha perso la sua carica emotiva, è diventata un’incitazione svuotata del suo significato profondo ed etico e infastidisce persino perché declinata al raggiungimento del profitto, o di una meta sportiva o altre amenità.

“Un altro mondo è possibile” dovrebbe essere il memento davanti al nostro letto e che vediamo come prima cosa ogni mattina, anche in questo caso abusato e depredato della sua portata evocativa.

Il sottotitolo de IL CORPO DELLE DONNE potrebbe essere uno dei due slogan citati, quando ancora erano carichi di significato.


Vale la pena di raccontare la storia che ha condotto al documentario.

Lo scorso anno ho risentito parecchio della crisi economica, che ha avuto un unico risvolto positivo: mi si è liberato del tempo.

Nella lingua cinese la parola crisi è composta da due ideogrammi: il primo wei significa problema, il secondo ji significa opportunità. Il modo migliore per uscire da uno stato di crisi sembrava dunque quello di cogliere le opportunità di crescita in esso contenute.

Improvvisamente si sono liberati degli spazi durante il giorno, che potevo riempire a mio piacimento.

Non c’è stato un attimo in cui chiedermi cosa fare del tempo che si liberava nella mia vita.

Da anni mi occupavo di tematiche legate al femminile, all’estero per lo più, poiché in Italia il dibattito su queste tematiche mi pareva trattato troppo superficialmente.

Un amico proprio in quel periodo mi ha provocato stimolandomi a guardare la tv, da me abolita da anni, perché “solo guardando la tv avrei capito le donne italiane”.

L’ho preso in parola.

Durante le vacanze di Natale ci siamo chiusi in casa io Marco e Cesare con 2 tv, videoregistratori, scorte alimentari e abbiamo registrato centinaia di ore tv. Il lavoro poi si è arricchito con la visione di filmati su youtube e di archivio.

Ci appassioniamo, ci dimentichiamo del tempo, le giornate si susseguono veloci.


Qual’era il nostro obbiettivo quando siamo partiti, mi chiedo ora a distanza di 5 mesi dalla fine del montaggio.

Un obbiettivo minimo, apparentemente. Preparare un documentario di circa 20 minuti da far girare nelle scuole e nelle associazioni per stimolare la riflessione.

Però se ci penso con più attenzione l’obbiettivo era proprio quello di cambiare il mondo, niente di meno. Ciò che mi ha mosso è stata proprio una fortissima volontà di cambiare il mondo e la certezza di poterlo fare.

Si può obbiettare che il mondo sta andando avanti così com’era, che non è cambiato. Io non lo credo. Noi stiamo cambiando il mondo, così come stanno cambiando il mondo le molte persone che hanno avviato progetti in questa direzione e hanno la volontà di incidere sulla realtà che li circonda.

Il problema è l’ansia di volere raggiungere gli obbiettivi a breve che contraddistingue la nostra epoca.

Io sto incidendo fortemente sulla realtà che mi circonda, questo non significa che ne vedrò gli effetti nei prossimi mesi. La logica del mercato con la spinta feroce a raggiungere risultati sempre più a breve termine ci influenza e ci impedisce di darci obbiettivi importanti i cui effetti conprensibilmente si manifesteranno a lungo termine e di cui non è nemmeno detto che potremo essere testimoni.

Questo non deve togliere energia e mordente a quanto facciamo se è forte la consapevolezza di essere nel giusto e se non misurerò l’efficacia della mia azione solo in base al ritorno economico che ne ricaverò.


Tornando al racconto, finito il montaggio abbiamo iniziato a presentare il documentario nelle associazioni e da subito è parso evidente che il pubblico reagiva, che molte donne italiane erano pronte al dibattito e, con mia sorpresa, anche molti uomini.

Da questi incontri è partito un veloce passa parola che è arrivato all’orecchio di Gad Lerner, che l’ha mostrato a L’Infedele, che ci ha condotti a proporre il documentario sulla rete, ad aprire un blog, a continuare altri dibattiti, forse a scrivere un libro ecc.

Non avevamo previsto nulla di tutto questo.

L’investimento economico è stato minimo, l’investimento di tempo ed emotivo enorme.

Scrivo questo post per rispondere ai tanti ragazzi e ragazze che risentono del clima stagnante in cui siamo immersi e che perdono comprensibilmente la voglia di fare, di agire.

La Storia de IL CORPO DELLE DONNE parte da un soggiorno di casa, due pc, due videoregistratori, 3 amici: due uomini e una donna, tantissima passione, energia a 1000, a volte dalla rabbia per quello che vedevamo, più spesso dall’entusiasmo per quello che immaginavamo la tv potesse diventare.

Non mi piacciono né i cinici né gli scettici.

Non mi piace chi finge di commuoversi sentendo Martin Luther King o i discorsi ispirati di Obama, e poi ironizza sugli ideali che qualcuno ancora riesce ad esprimere qui da noi.

220mila persone hanno visto il documentario in due mesi, un fiume di persone che si sono ritrovate nella critica alla tv e si sono sentiti parte di un gruppo. Se anche finisse tutto qui, mi pare di poter dire che ne è valsa la pena.