Non so voi, ma io ho ormai l’allergia agli slogan ipercitati tipo “yes, we can”, “un altro mondo è possibile” e così via.
Il problema nasce dall’abuso che se ne fa.
“Yes, we can” è nato per raggiungere un obbiettivo fino a tempo fa impensabile: un presidente nero e democratico alla Casa Bianca. Poi però l’abbiamo visto usare da parte di molte aziende per stimolare i propri dipendenti a superare la crisi, a farsi carico del raggiungimento di obiettivi difficili. E allora “Yes we can” ha perso la sua carica emotiva, è diventata un’incitazione svuotata del suo significato profondo ed etico e infastidisce persino perché declinata al raggiungimento del profitto, o di una meta sportiva o altre amenità.
“Un altro mondo è possibile” dovrebbe essere il memento davanti al nostro letto e che vediamo come prima cosa ogni mattina, anche in questo caso abusato e depredato della sua portata evocativa.
Il sottotitolo de IL CORPO DELLE DONNE potrebbe essere uno dei due slogan citati, quando ancora erano carichi di significato.
Vale la pena di raccontare la storia che ha condotto al documentario.
Lo scorso anno ho risentito parecchio della crisi economica, che ha avuto un unico risvolto positivo: mi si è liberato del tempo.
Nella lingua cinese la parola crisi è composta da due ideogrammi: il primo wei significa problema, il secondo ji significa opportunità. Il modo migliore per uscire da uno stato di crisi sembrava dunque quello di cogliere le opportunità di crescita in esso contenute.
Improvvisamente si sono …
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