Qualche mese fa è uscito questo articolo sulla 27esima Ora del Corriere della Sera. La giornalista che lo scrive racconta del suo disappunto nel ricevere la convocazione da parte della rappresentante della scuola elementare frequentata da suo figlio, per la riunione di classe alle h 17 di un giorno feriale.Il disappunto viene seguito dalla decisione a non partecipare alla riunione. Decisione condivisa dalla quasi totalità delle famiglie tanto che la rappresentante di classe scrive il giorno dopo una lettera piena di stupore chiedendo il motivo di tale ampia defezione.Motivo che la giornalista spiega con l’impossibilità unita al fastidio ad abbandonare il posto di lavoro a metà pomeriggio. La scuola si trova in una zona centrale ed elegante di Milano ed è per lo più frequentata da figli/e di donne professioniste.

Chi fa un lavoro di responsabilità ed è in carriera non può lasciare l’ufficio alle 16.30: perché non convocare le riunioni di classe alle h 20, in modo che i genitori possano parteciparvi senza difficoltà? Si chiede in finale la giornalista.

Qualche settimana dopo la pubblicazione di questo articolo sono stata intervistata durante un programma radiofonico RAI.

Il tema del dibattito era la notizia allora nuovissima della possibilità che alcune imprese tra cui Apple offriranno alle proprie giovani dipendenti: il congelamento dei loro ovuli fino al momento in cui dovessero decidere di utilizzarli per riprodursi.

Ho pensato molto in queste settimane ad entrambi gli articoli perché collegati da un comune denominatore.

Per che cosa ci stiamo battendo noi donne?

Qual’è l’obbiettivo delle nostre lotte?

E qui non mi riferisco alle rivendicazioni portate avanti da chi si definisce femminista. No, intendo gli sforzi che le donne tutte stanno compiendo per rendere il mondo e dunque anche il mondo lavorativo, rispettoso dei nostri diritti e dei nostri desideri. Per non trovarci in un luogo che poco ci assomiglia e dove i tempi e i metodi sono stati pensati da altri, dagli uomini. Che non sono peggio o meglio di noi, ma sono certamente diversi.
So bene di cosa parlo: anni fa fui una delle prime donne dirigenti in grandi multinazionali e conosco bene cosa significhi lavorare 10 ore al giorno con modalità che non tengono conto dei “modi delle donne”.
Molto tempo è passato e nel frattempo le donne sono entrate a migliaia nelle aziende.
In alcuni Paesi i progressi sono evidenti: ho amiche che usufruiscono di ottimi part time orizzontali in Francia che ha permesso loro di crescere i figli senza rinunciare a una buon carriera ( il part time invece per anni è stato inteso come un parcheggio per chi veniva considerata “fuori gioco”).
Conosco donne nei Paesi del nord Europa che ricoprono ruoli direttivi e lavorano spesso da casa.
Settimana prossima mi troverò con delle amiche svizzere a Losanna e Josefine avrà un po’ di tempo per me perché il venerdì lavora da casa, lei che ricopre un ruolo di prestigio.

 

Nominare il mondo al femminile” aveva scritto Luisa Muraro. E certo nominarlo significa declinarlo seguendo le nostre inclinazioni, le nostre propensioni.
Con grande beneficio delle organizzazioni, perché è ormai dato acquisito che le differenze arricchiscono i luoghi di lavoro e dunque non è da incentivare l’adeguamento eccessivo.
Ed è l’adeguamento a tutti i costi al modello unico lavorativo che hanno in comune le madri che disertano in massa la riunione di classe e le giovani impiegate di Apple o Facebook.

Non critico perché conosco bene quanto sia difficile farsi portatrici di un modello nuovo nella patriarcale società italiana che si classifica al 69posto del Global Gender Gap.
Non critico ma segnalo che non è adeguandoci che cambieremo le regole a nostro favore.
Normalmente sono 3 o 4 le riunioni di classe in un anno. Supponendo di partecipare a 3 riunioni e ipotizzando di avere 2 figli/e si tratterebbe di uscire dall’ufficio per 3 volte su 220 giorni alle h 16,30 (ipotizzando che altrettanto potrebbe fare il padre).
3 pomeriggi su 220 pomeriggi, ci viene chiesto dalla scuola frequentata dai nostri figli/ecdi uscire alle h 16,30. Un pomeriggio ogni 70 giorni.
Non è una grande richiesta, sono certa che ne converrete.
Ma io so che il mondo del lavoro italiano è organizzato male e anche quei tre pomeriggi potrebbero essere ritenuti un ‘esigenza eccessiva.
Ma il prezzo da pagare in termini di ripercussioni sullo stipendio, sulla carriera sul clima aziendale, sarà meno alto se TUTTE saremo convinte che è giusto, accettabile, positivo ed etico che l’organizzazione dove lavoriamo rispetti anche le nostre esigenze personali che non danneggiano assolutamente, tutt’altro, il nostro lavoro.
Lo spiegano Bene Zezza e Vitullo nel loro libro “Maternity as a Master”.
L’Italia ha uno dei più bassi tassi di natalità del mondo. Ricordo che anni fa Emma Marcegaglia Presidente di Confindustria promuoveva maggiore occupazione femminile e al contempo maggiore natalità: non funziona così, avrei voluto dirle. Non funziona se non è la società tutta a farsi carico della maggiore natalità. Se resta un dovere che ricade totalmente sulle spalle delle donne, resteremo a natalità zero.
E non è giusto chiedere che le riunioni vengano convocate alle 8 di sera. Non solo perché sarebbe una richiesta inaccettabile da porre a maestri e professori/esse tra i peggio retribuiti d’Europa.
Ma perché bisognerebbe finalmente chiedersi il motivo per cui dobbiamo imbarazzarci nel chiedere 2 ore per discutere delle esigenze dei nostri figli/e e non dobbiamo provare alcun disagio nel rinunciare a vedere e a cenare con i nostri figli/e perché siamo costrette a organizzare riunioni di classe all’ora di cena.
“Primum vivere”.
Ecco è questo che viene domandato oggi alle donne. Farci carico di ricordare alla società tutta che prima c’è la vita. Con beneficio nostro, degli uomini e delle organizzazioni.
Organizzazioni che in questo modo ci lasceranno libere di pianificare le nostre gravidanze e a cui non dovremo essere grate di congelarci i nostri ovuli.

Non è facile, richiede molto coraggio e molta determinazione.
Ma è ciò che dobbiamo fare per non trovarci a compiere pericolosi passi indietro nel cammino verso la nostra piena affermazione.