In riferimento al post del 24 luglio “Sbatti un ragazzino ucciso a Gaza in Tv al Tg delle h20” ringraziamo Cesare Cantù per l’utile articolo qui sotto che ha scritto che ci ricorda che la MORTE IN DIRETTA non è mai UTILE. A nessuno/a.
E’ del 1980 La morte in diretta, film di Bertrand Tavernier con Romy Schneider e Harvey Keitel nel quale, in un futuro prossimo, la protagonista malata di cancro e con soli tre mesi di vita viene seguita da un reporter che ha una telecamera impiantata in un occhio per filmarne di nascosto l’agonia ad uso di un programma televisivo seguitissimo. La presenza di un videotelefono nel film ribadiva che nel futuro prossimo sarebbero state le immagini quotidiane elettronicamente riprodotte ad avere un peso decisivo nella vita delle persone. Mentre il film veniva girato, i gruppi televisivi privati europei si preparavano al grande balzo in avanti e i primi pc casalinghi, che avrebbero rapidamente portato a quelli attuali che abbiamo per le mani, venivano assemblati nelle fabbriche californiane.
Gli oltre 30 anni che ci separano da quel film duro, triste e premonitore, sono stati una storia di illusioni.
L’illusione che i limiti e i problemi che la televisione e i media avevano posto fino a quel momento potessero essere superati con il moltiplicarsi dei mezzi e dei canali di trasmissione. Monopolio, censura strisciante, conformismo, ingerenza dei partiti e delle lobbies sono invece aumentati.
L’illusione che la democratizzazione degli strumenti elettronici prima e informatici poi avrebbe permesso una automatica partecipazione democratica delle persone alla vita collettiva e al progresso, dimenticando che senza educazione non c’è strumento, neanche il fucile, che possa cambiare il rapporto tra gli individui e il potere.
L’illusione che il moltiplicarsi delle immagini e la possibilità di mostrarle istantaneamente, istante che diventa eternità ripetuta con la Rete, a miliardi di persone avrebbe permesso il trionfo della verità, perché cosa c’è di più sincero di una immagine ripresa dal vero?
Colpisce che il video dell’esecuzione del giovane palestinese che è stato diffuso dai telegiornali possa essere interpretata ancora come una forma necessaria, addirittura utile, di informazione. Sulla vicenda (che comprende l’aggressione israeliana a Gaza, l’omicidio di un inerme, l’uso di questo specifico filmato come contenuto visivo dei tg) si possono avere opinioni diverse: condannare una guerra di occupazione oppure appoggiarla; avere orrore di una disumana esecuzione oppure ritenerla giustificata dalla barbarie insita nella guerra; rifiutare che l’informazione diventi spettacolo oppure apprezzare che ogni genere, anche la morte in diretta, sia ospitata nel contenitore del telegiornale. Perché le opinioni sono libere. Ma voler credere che mostrare la morte in diretta possa avere lo scopo di informare o sensibilizzare, se non è frutto di malafede (che può riguardare i giornalisti televisivi non credo il pubblico) lo è di una pessima analisi (che può riguardare soprattutto il pubblico che con umana sincerità partecipa alla tragedia alla quale assistiamo). Perché immagini di questo impatto, che richiedono una partecipazione tale che annulla tutto ciò che in quel momento si sta facendo davanti alla Tv (anche il solo respirare), non possono essere immesse in una modalità di proposizione come quella dei tg dove regnano i tempi brevi e il ritmo serrato e per alcuni anche le interruzioni pubblicitarie, senza che perdano il loro significato originale. Perché lo scopo dei direttori/trici che scelgono di mandarle in onda è dettato da due motivi principali: attirare l’attenzione del pubblico ed evitare che non facendolo, mentre la concorrenza lo fa, possano essere accusati dalla dirigenza del canale di aver bucato la notizia. Se tra i motivi della scelta ci fosse la volontà di informare sull’aggressione di Israele (intendendo qui i governi che hanno la responsabilità delle scelte e non certo il popolo israeliano nella sua complessità e diversità anche nei confronti della guerra contro gli arabi) alla Palestina, allora invece del video che mostra la morte, o almeno insieme a quello, verrebbe raccontato con le immagini e spiegato con le parole che, ad esempio, le risoluzioni dell’ONU che hanno condannato Israele in questi anni e che non sono mai state rispettate; verrebbe spiegato che, dizionario alla mano, il comportamento del governo e dell’esercito israeliano è terrorismo tanto quanto quello di una parte delle organizzazioni palestinesi (ma assai più letale e distruttivo); o si approfondirebbe la politica statunitense ed europea in Medio Oriente, che a parole sostiene la neutralità nei confronti dei contendenti ma nella sostanza appoggia Israele anche con la vendita massiccia di armi, in uno scenario geopolitico che giustifica questa politica in chiave anti-iraniana e più indirettamente anti-cinese. Insomma dovrebbe fare un più interessante e faticoso lavoro di informazione, che nessuno nelle tv auspica perché non paga nei termini di un sistema di rilevazione degli ascolti autoreferenziale e quindi punitivo per il pubblico. Se ogni minuto devo cambiare ritmo, argomento, tono, come fa questa tv, non c’è spazio per la morte in tv se non nella forma di uno spettacolo come gli altri. Senza una spiegazione e un racconto che permettano di recepirla per quello che è realmente si riduce ad un genere tra gli altri, come accade anche su Internet: provate a cercare “morte in diretta” su YouTube e ne avrete una dimostrazione.
Insomma quelle immagini di un giovane ammazzato potevano essere certo mostrate, ma in un altro contesto. Se questo non è adeguato si ottengono altri effetti, come disturbare, incuriosire, spaventare, certo non si ottiene l’effetto di muovere la coscienza, a meno che questa non sia già attenta grazie ad altre fonti e al bagaglio personale. Anzi, si avrà l’effetto di disperdere ogni possibile indignazione o mobilitazione nel flusso indistinto televisivo che tutto deve far rientrare nelle proprie regole e nel proprio formato. Lo certifica il fatto che, da quando la tv mostra tutto senza filtri interpretativi adeguati, la mobilitazione reale su fatti così importanti come la guerra è scomparsa. Nessuno è partito volontario per combattere o più semplicemente ha cambiato modo di votare in conseguenza di immagini del genere. Basta guardare la storia dei conflitti recenti per rendersene conto.
Al contrario la tv del passato, quella che c’era prima del 1980 diciamo, non avrebbe mai mandato in onda questo video perché in quel contesto, con un ritmo e uno stile televisivo lenti e quindi adatti a dare lo spazio necessario alla riflessione, con un minore affollamento di immagini che si mescolano e si confondono, questo video sarebbe stato dirompente. Cioè avrebbe potuto dispiegare davvero la sua carica politica di denuncia che nasce dal dolore umano. Avrebbe commosso davvero, cioè mosso all’azione. Sono il modo e il contesto a contare nella proposizione delle immagini in movimento. In base a questi, anche due azioni opposte, come mostrare o non mostrare, possono avere uguale risultato.
Non è possibile pensare di rappresentare la morte negli stessi tempi e modi con i quali si rappresentato le sedute parlamentari, le partite di calcio o un concerto. L’arroganza dei telegiornali e di chi li fa è proprio questa: pensare che debba essere la realtà ad adattarsi ai loro format e non viceversa. Se ci pensate c’è della follia in questo. O forse c’è solo un’abitudine priva di responsabilità che assicura lauti guadagni.
Come abbiamo sempre ripetuto qui come base operativa e teorica del nostro progetto Nuovi Occhi per i Media, e come sa chiunque osservi senza preconcetti l’universo media (chiamiamolo mediasfera come suggerisce lo studioso Raffaele Simone) i mass media hanno limiti e peculiarità connaturati ma non fanno per loro natura o bene o male, fanno quello che chi li usa, e quindi la società intera che li ospita, decide che facciano.