Se accaparrarsi un Uomo diventa un obbiettivo ambito, dobbiamo ricominciare dalle fondamenta. Urgono modelli di riferimento. Qui e in Austalia.

Leggiamo cosa ci scrive MArina Freri da Sydney
Che cosa possiamo insegnare noi italiane alle amiche in Australia?

Uno dei peccati di cui più spesso si macchiano gli italiani all’estero è quello di salire sul pulpito degli “svegli” che si trasferiscono per respirare qualche anno lontani dalla crisi economica – come se fossero stupidi quelli per cui un conto corrente sazio non vale la lontananza estrema dagli affetti e dalla cultura che ha definito per anni il proprio essere.Ci adeguiamo alla retorica dei “cervelli in fuga”, come se nessuno di noi si fosse mai sporcato le mani prima di poter stancare la testa e cantiamo, patriottici di un paese di cui balbettiamo la lingua, “Advance Australia Fair… Avanza Australia la giusta.”

Tutto funziona meglio – i treni in orario, la cortesia alle poste, la fila in banca e persino il cielo è più azzurro.

 Certo l’Australia è stereotipicamente “la giusta” per quelle possibilità occupazionali non clientelari inseguite da tanti migranti.

Anch’io nell’ambito di questa rubrica mi sono unita al coro, contribuendo alla mitologia collettiva e raccontando storie di successo e di pari opportunità – citando ad esempio di lavorare per due redazioni diverse capitanate entrambe da due donne: cosa che tuttora dura.Ed è anche vero che nel 2011 l’Australia aveva una Governatrice Generale, una Primo Ministro, Premier di stato donne in almeno tre su sei stati e territori e Sydney era guidata – e lo è ancora – dalla sindaco Clover Moore.

 Ma dopo le elezioni dello scorso settembre ci ritroviamo con una sola donna, Julie Bishop, come ministro nella squadra di governo del conservatore Tony Abbott – altre sono presenti in quello che viene definito l’“outer ministry” cioè i ministeri minori.

 Julia Gillard, la prima donna a guidare l’Australia come primo ministro, è stata fatta fuori politicamente da una costante aggressione misogina di cui hanno parlato diffusamente i media internazionali.

 Non nego che sia stata fautrice di riforme impopolari perché costose e anche qualora fosse stata uomo difficilmente sarebbe sopravvissuta alle elezioni, ma sicuramente gli attacchi “sul personale” non l’hanno risparmiata neanche il giorno della morte del padre, quando uno speaker radiofonico disse che il signor Gillard era crepato di imbarazzo per l’incapacità politica della figlia.  Stay classy.

Ma c’è dell’altro. Nei giorni scorsi, uno dei programmi televisivi più seguiti era la finale di “The Bachelor”, un reality show in cui un gruppo di giovani donne tentava di conquistare quanto di più ambito ci sia: uno scapolo 31enne che aveva sofferto per amore in passato.Le concorrenti non sono state scelte nei noti vivai televisivi– come spesso accade in Italia – di comparse o troniste che non rappresentano certo la maggioranza delle ragazze italiane, ma provengono da ambienti lavorativi diversi, tanto che una delle due finaliste della serie era un avvocato penale.

 I ragazzi australiani spesso frequentano scuole a genere unico, le “all girls” o “all boys” schools, dove – lontano dalle distrazioni portate dal risveglio degli ormoni – vengono formati nella percezione di poter raggiungere qualsiasi obiettivo si prefiggano.

 Ma qualche giorno fa un rapporto del Council of Australian Governments mostrava che nonostante ci siano più ragazze laureate di ragazzi e che queste eccellano a scuola più dei loro amici, gli stipendi rimangono iniqui.

 Già dopo la laurea, una neolaureata percepisce uno stipendio annuo che è di 5mila dollari inferiore a quello di un neolaureato. La forchetta si allarga drasticamente nel fondo pensionistico: il tesoretto accumulato da una lavoratrice nel corso della sua carriera diventa, infatti, di 85mila dollari inferiore.

 Il rapporto ci dice che in generale le donne australiane guadagnano in media il 17.5% in meno degli uomini. In alcuni casi il divario persiste anche quando uomo e donna rivestono la stessa posizione.

 Inoltre solo il tre percento delle maggiori 500 società australiane è guidato da una donna; e se le donne dominano nel settore pubblico, solo una parte di loro (il 39%) raggiunge posizioni manageriali.

 Sempre stando al rapporto, sembra che anche in Australia la cura dei familiari ricada sulle donne. Nel 40 percento delle famiglie in cui un membro sia affetto da disabilità è la donna a smettere di lavorare per fornire assistenza.

 Ed è per questo che le mie amiche australiane, abituate più che noi credere nelle proprie capacità, non capiscono se quella in atto sia solo una fase di transizione o di trasformazione.

 Io mi auguro per loro “un ritorno al futuro” e penso al 2011 come l’anno in cui anch’io, contagiata dal veder donne nei top jobs d’Australia, ho creduto che niente potesse impedirmi di avere una carriera: ecco l’importanza dei modelli.