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5 febbraio – Rivalta Torinese (TO)

by Il corpo delle donne on Feb 5, 2013 • 08:27 1 commento

Tags: piemonte, presentazioni, senza chiedere il permesso
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1 commento

  1.  

    Barbara Timon says:

    Feb 5, 2013

    Rispondi

    Barbara TIMON – Candidata alla Camera – Piemonte 1 – SCELTA CIVICA con Monti per l’Italia

    CRISI ECONOMICA: PROPOSTE PER UNA RIFORMA STRAORDINARIA DEL LAVORO

    Sono avvocato dal 1992 (dunque, da oltre 20 anni). Il mio, è uno studio “boutique”. O meglio, più prosaicamente, un piccolo studio, uno studio di “artigiani del diritto”. Collaborano con me due colleghe.

    Non è uno studio “blasonato”: nel senso che non vengono riportati sulla carta intestata i nomi di uno stuolo di avvocati e sedi sparse in tutto il mondo.

    Il pregio del mio studio, al contrario, consiste nel fatto che il nostro rapporto con il Cliente è diretto, immediato. Ci poniamo in ascolto delle sue esigenze e delle questioni legali che ci pone e definiamo con lui – passo passo – la strategia difensiva o le misure da adottare, affidandoci, se del caso, a singoli specialisti esperti nei diversi campi delle scienze, che individuiamo di volta in volta, al fine di giungere alla migliore soluzione del problema.

    Si instaura dunque con il Cliente un rapporto di stretta vicinanza, direi quasi di “familiarità”. Mi riconosco in pieno nella figura del “professionista di fiducia”, perché il Cliente si rivolge a noi con il cuore in mano, confidando nel nostro impegno e nelle nostre capacità ad operare nel suo pieno interesse e con la necessaria riservatezza.

    Tutto questo per dire che, per il lavoro che svolgo, entro quotidianamente in contatto con i problemi della gente. La mia clientela è rappresentata da privati e da aziende medio – piccole. E, dalla mia prospettiva, avverto nettamente il dilagare della crisi economica.

    Tento di spiegare.

    Si rivolge al mio Studio una signora, separata, che lamenta il fatto di avere dovuto applicare al figlio l’apparecchio dentistico ed il marito, dopo avere concordato di farsi carico ciascuno di una rata del relativo debito mensile, non paga la sua parte e lei si vergogna anche solo a presentarsi ancora dalla dentista per le visite di controllo al figlio. E’ arrabbiata con il marito, che fa orecchie da mercante; con la dentista, che mannaggia quanto costa un apparecchio; con se stessa, che – se solo potesse – ne farebbe proprio a meno di farsi sentire ancora dall’ex marito; e penso anche con me, che le pavento l’idea di dover anticipare lei i costi e poi presentare al Giudice un ricorso e poi fare l’eventuale azione esecutiva, e poi ..

    Si rivolge al mio Studio un signore, divorziato, che tiene gli occhi bassi su un foglio excel dove ha meticolosamente annotato le spese dell’ultimo anno: è un ingegnere elettronico di cinquantacinque anni; l’azienda per la quale ha lavorato per trent’anni lo ha licenziato nel luglio scorso per esubero del personale; era abituato a viaggiare, per lavoro e per diletto, ad andare fuori a cena, un teatro di tanto in tanto; ha la passione della fotografia, dello sci. E’ un uomo disperato: non sa come fare. Non ce la fa più a versare alla moglie l’assegno per le due figlie. Sta esaurendo quanto aveva da parte e sempre più spesso va a cena da suo fratello (anche se gli pesa dover chiedere aiuto). Ha venduto su e-bay la macchina fotografia. Non frequenta più gli amici perché non potrebbe più permettersi le loro spese. Ha cercato – continua a cercare – altre possibilità di lavorare. Si sente vecchio. Brutto. Piange. Con la mano, faccio un gesto ampio, come ad indicargli di spazzar via i brutti pensieri. Gli parlo dei passi da fare, uno alla volta. Prende appunti. Alza lo sguardo.

    Si rivolge al mio Studio un artigiano, titolare di una ditta di materassi. L’azienda l’ha avviata negli anni ’70 con suo cugino. Qualche anno fa hanno comprato un capannone grande nella cintura di Torino. L’hanno comprato con un leasing. A garanzia, la finanziaria ha messo l’ipoteca sull’immobile. E sulla sua casa, su quella di suo cugino, sull’appartamento che aveva comprato in Liguria. Producono materassi: misure standard e su misura. Hanno una ventina di dipendenti, tra operai, impiegati, segretarie, contabili, magazzinieri. Ha messo tutto a norma, perché gli piace fare le cose per bene. Ed ora non si dà pace. Le vendite sono calate. Dapprima, è stato quasi impercettibile. Ha pensato si trattasse di un momentaneo calo di interesse. Perché il suo prodotto fosse più appetibile, ha investito nella qualità. Si può pensare che – in materia di materassi – non ci sia stata una evoluzione significativa. Non è così. Ha sostenuto i costi di nuovi macchinari. Ha esaminato le ricerche svolte e ne ha applicato i risultati. Ha adottato i materiali più innovativi. Ha realizzato quello che, secondo lui, è il prodotto perfetto. Ma, intorno, sono spuntati i rivenditori di materassi che costavano meno. Un po’ meno. Poi, un terzo meno. Ora, quasi un terzo dei suoi. Lui, che i materassi li conosce, non li definisce neppure materassi. Li guarda con sdegno. Quasi con ribrezzo. Materiali scadenti. Produzioni raffazzonate. Nessuna cura. Che portano un marchio italiano, ma vengono realizzati da ditte subappaltarici, che nascono e muoiono e rinascono, in un caleidoscopio di nomi diversi, di cui nessuno è rintracciabile. Eppure vendono, e lui no. I materiali costano. I dipendenti devono essere pagati. Ha chiesto aiuto a tutti. Le porte si sono chiuse. Poi, l’ultima batosta: il fallimento di una società alberghiera che gli doveva pagare una consistente commessa. Il guadagno di un anno di lavoro andato in fumo. E con questo, la speranza di rimettersi in marcia. Non ce l’ha più fatta a pagare il mutuo. Ha rifiutato l’aiuto di un faccendiere. La sua casa è ora in vendita. Firma la delega per presentare istanza di fallimento in proprio.

    Si rivolge al mio Studio una vedova, cui il marito ha lasciato la proprietà di due alloggi. Entrambi sono dati in affitto: l’uno ad una coppia giovane, pubblicitari; l’altro ad un signore, muratore. Non riceve il canone da nessuno di questi, ormai da quasi quattro mesi. Il muratore, neppure le paga il riscaldamento. Così è a lei che si è rivolto l’amministratore. E lei ha cercato di capire le ragioni degli altri. Quanto alla coppia, non sono cattivi ragazzi, davvero: li vede uscire presto, tutte le mattine; tengono la casa come un gioiello: l’hanno riempita di grandi foto, di pannelli, di immagini delle loro campagne pubblicitarie; e poi, sono tanto gentili: le fanno gli auguri per Natale e per Pasqua e spesso le portano dei dolcetti deliziosi, quando tornano a Torino dal sud. Se non pagano, è proprio che non possono. Dicono che ancora non hanno ricevuto il pagamento di alcune brochures per una mostra del luglio scorso. Dicono che le commesse si sono ridotte, che le aziende hanno contenuto gli investimenti nella pubblicità. E quanto al muratore: è un tipo taciturno, sempre solo, ombroso. Il contratto risale a cinque anni fa ed ha sempre pagato ogni mese, puntuale come un orologio. Ora, non sa, ma – se anche lei lo cerca – neppure risponde al cellulare. Mi guarda come un oracolo: che devo fare? Si metta comoda, Signora.

    Torno la sera a casa con un peso indicibile. La fatica degli altri si riflette su me stessa. L’uomo/la donna senza lavoro, perde dignità. Il problema contingente, quotidiano, immanente, ci rende schiavi, supini, ciechi. Gli effetti della crisi si amplificano, dilagano, si espandono, in un effetto di rifrazione e scomposizione.

    Questa pena, mi ha portato ad una considerazione. La crisi ci ha reso tutti uguali. Ho vissuto credendo nel concetto di lotta di classe. Ero convinta davvero ci fosse una contrapposizione tra i ricchi e i poveri – tra i padroni e i lavoratori. E, così anche, che le prospettive fossero diverse tra chi ha studiato e chi è ignorante; tra il vero imprenditore ed il nullafacente; tra chi si impegna e lo sbandato.

    Ora, la crisi ha fatto fondere come in una fornace il concetto di lotta di classe: ho visto la stessa sofferenza, la stessa volontà di riscatto, lo stesso anelito alla ricostruzione nell’operaio, così come nell’amministratore delegato della società. L’urgenza di uscire dalla crisi, subito!, adesso!, è sentita in eguale misura dall’imprenditore e dal lavoratore. Dall’uomo. Dalla donna. Da ogni essere umano che voglia mantenere la propria dignità.

    Io ho provato ad immaginarmi un futuro diverso. Mi repelle l’idea dell’ “uomo forte”, che impone sugli altri la sua volontà. Ma credo che sia il momento di “decisioni forti”, davvero riformatrici, rivoluzionarie.

    Io credo che dalla crisi non si esca con aiuti sporadici. Con sovvenzioni. Con l’elemosina.

    Non posso negare che – in certi momenti di assoluta indigenza – un aiuto economico rappresenti l’unica possibilità di sopravvivenza. Ma quell’aiuto è come una fiammella che illumina un momento e poi si spegne. Ed il problema si ripresenta identico, un attimo dopo.
    A me sembra che la spirale negativa innescata dalla crisi possa invertire la sua rotta solo intervenendo in modo radicale sulla politica del lavoro e, più propriamente, degli ammortizzatori sociali.

    L’attuale crisi economica – delineata nelle situazioni cui sopra ho fatto menzione – non è affatto limitata ai soli giovani, alle donne, ai lavoratori dipendenti, al mezzogiorno. E’ una crisi ormai diffusa a tutti i livelli, tra tutte le categorie di genere, tra tutte le età, tra tutte le classi sociali.

    Non serve garantire, proteggere, uno spicchio di società civile, lasciando un’altra parte priva di tutela.

    Ho maturato questa convinzione: così come la crisi attuale sta avvitando il Paese in un vortice negativo, le politiche a sostegno del lavoro potranno innescare una spirale virtuosa che porterà al risanamento della nostra economia ed all’esaltazione delle energie positive e sane dell’Italia.

    Io credo che lo Stato in questo debba intervenire. Io credo che il compito principale della politica sia quello di dare dignità all’uomo: metterlo nelle condizioni di lavorare. Tutte le risorse dello Stato devono essere utilizzate a tale scopo: per creare un volano per la crescita economica.

    Le sovvenzioni, le indennità, gli aiuti economici di vario tipo sono solo un balsamo temporaneo, ma non creano prospettive, non danno alcuna speranza per il futuro. Anzi, attualmente, il lavoratore che ne beneficia è costretto – per il periodo che percepisce l’aiuto economico – a non lavorare! Per andare incontro al lavoratore (ad alcuni di questi), gli si dà – per un periodo limitato di tempo – l’elemosina e lo si obbliga a non lavorare (favorendo, di fatto, il lavoro nero). Nessuno trae vantaggio da questa macchina che assorbe risorse economiche sempre maggiori, via via che si espande la crisi.

    Occorre cambiare rotta: si deve offrire a ciascuna persona la possibilità di lavorare, sulla base delle proprie capacità, esperienze, qualifiche.

    Il concetto è semplice e rivoluzionario al tempo stesso.

    Rivoluzionario: in quanto davvero deve essere messo il lavoro al centro di ogni decisione politica.

    Semplice: la burocrazia ci ha abituato a presentare moduli, domande, denunce. Ora, si tratta di formare uno schema definito in cui ciascuna persona – alla ricerca di un lavoro – qualunque sia la sua età/genere/status …, esprima con cura e metodo quali siano le proprie capacità, aspirazioni, interessi. Si potrà esprimere la propria disponibilità all’esercizio di possibili mansioni, esplicitando le qualifiche raggiunte o auspicate.

    Ecco: così come l’uomo ha necessità di lavorare, allo stesso modo, ci sono una quantità infinita di lavori da fare. Sono necessari ed improrogabili lavori di vario tipo: servono scuole, asili, ospedali, tribunali, strade, ponti, carceri, gallerie, attrezzature, apparecchiature, linee di telecomunicazione (servono ingegneri, geometri, architetti, impresari edili, muratori, impiantisti, insegnanti, educatori, cuochi, medici, infermieri, periti, giudici, avvocati, cancellieri…).

    Lo Stato, a mio parere, in questo deve intervenire. Deve istituire organismi capaci di fare incontrare la domanda di lavoro con l’infinita varietà dei possibili lavori da svolgere, tra i quali scegliere a seconda delle attitudini, abilità, interessi del lavoratore.

    Il lavoro dovrà essere conseguentemente retribuito, seppure a prezzo calmierato. Lo Stato garantirà a chiunque la prospettiva di una vita dignitosa. E l’economia, tornerà a crescere.

    In questo modo, si ristabilirà il criterio del merito e del rispetto della dignità della persona: ciascuno potrà essere arbitro della propria sorte ed a tutti sarà assicurata uguale protezione.

    E’ solo un’idea. Ma si fonda su solide radici.

.

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