Come scrive Francesco Stoppa, psicanalista, classe 1955, la restituzione non è un cerchio che si chiude:
“La mia generazione non ha mancato di far sentire la consistenza del proprio desiderio, il legittimo orgoglio per quella che è stata la propria storia, dando però per certo che chi sarebbe venuto dopo non avrebbe mai potuto eguagliarla. Si è rivelata a tal punto vittima di tale fascinazione narcisistica, che il senso vero dell’esistenza umana – il mistero di ciò che ci fa uomini – non sta nell’autoreferenzialità della propria esperienza, ma risiede in quei singoli, spesso quotidiani e ordinari atti con i quali si consegna il mondo a qualcun altro. Ed è forse sul piano della trasmissione, a causa in particolare dell’incapacità dei genitori di oggi di concepire e accettare la propria funzione di tramite […], che si è spezzato o perlomeno allentato l’anello di congiunzione con la generazione successiva e, di conseguenza, tra quest’ultima e la propria storia.
Forse la gratitudine che gli adulti lamentano di non percepire da parte dei giovani ha qui la sua radice. Si può restituire ciò che non si è ricevuto o che è stato trasmesso in forma ambigua, svogliata, saccente? La questione è cruciale, anche perché la restituzione non è un’operazione che chiude il cerchio tra due contraenti, nella fattispecie tra due generazioni, ma guarda avanti, a chi dovrà venire; il proprio debito simbolico (l’aver ricevuto un nome e una storia, e potersi nutrire di un sentimento della vita) lo si salda infatti nel passaggio di testimone, trasmettendo ad altri ciò che abbiamo a nostra volta avuto in dono.
Si compie dunque la restituzione pensando già oltre la generazione a cui si restituisce, proiettati nel futuro agli altri lontani che arriveranno.

E mentre scrivo, nel giugno del 2012, ci stordisce la notizia che più del 30% dei giovani non ha un lavoro, non studia, non segue un percorso formativo.
E dunque il sociologo Franco Ferrarotti scrive La strage degli innocenti, descrivendo il genocidio di una generazione di giovani di cui si sta facendo scempio. Senza lavoro, senza prospettive, in un mondo dominato da valori legati al denaro, mentre il denaro è divenuto risorsa scarsa. Se arrivasse un eremita vissuto per decenni isolato dal mondo, e leggesse i libri che descrivono lo scempio dei giovani, e al contempo constatasse come viviamo, non penserebbe forse che siamo noi invece, gli adulti, la generazione perduta? Non la strage degli innocenti dunque, bensì dei colpevoli, degli ottusi. La strage di quelli del Novecento.
Potremmo definirci una generazione perduta che, oltre ad avere investito sulla ricerca di soli obiettivi materiali, sta riversando la propria incapacità di progettare il futuro sui propri figli e figlie. Generazione di egoisti, inchiodati all’interno dei propri privilegi, capaci di analisi senza fine, ma incapaci di prospettiva a lungo termine.

Senza Chiedere il Permesso, ed. Feltrinelli.