Quando mai ci capita di sentire raccontare di Lisbona? Ci ho pensato giorni fa quando ho letto della morte di Tabucchi, scrittore pisano perdutamente innamorato di Pessoa e da tempo cittadino lusitano.
E dunque grazie alla nostra Chiara Baldin che doveva restare a Lisbona pochi mesi e che ci pare, lei pure, irrimediabilmente presa dal fascino portoghese.

 

Farò finta di non aver sentito

I tuoi passi scorrere su di me.

La violenza delle tue ossa sbattere;

La tua voglia di ferirmi,

graffiare con maglia e pelle ruvida.

L’indifferenza nel voltarti

E lasciare frammenti di paura

Incastrati negli occhi.

I miei.

 

 

Ho sgocciolato il costume di nuoto e mi sono fermata a pensare.

Sono passati quasi sei mesi e mi sembra di aver vissuto una vita intera, a Lisbona. Guardavo le gocce che scendevano fino a terra e ho immaginato di essere una di loro, liscia e trasparente: scomparire tra le tubature, scivolare e raggiungere, chissà, il mare. Probabilmente ci arriverei sporca. Forse più grande, unita ad altre gocce. Cambierei, mi modellerei a seconda del percorso da affrontare. Raccoglierei ciò che incontro e mi farei accompagnare da chi incontro. Ne sono sicura.

Ho lasciato asciugare il costume e, sorridendo, ho capito che l’immagine della goccia rappresenta proprio l’esistenza vissuta finora. Quante scivolate, quante strade, quanti viaggi e quanti incontri.

Il mese scorso ho dovuto salutare molte persone incrociate nel nuovo cammino e concludere alcuni capitoli. L’esperienza COMENIUS (http://www.programmallp.it/index.php?id_cnt=31), il progetto con il quale sono arrivata a Lisbona, è terminato. La professora italiana ha salutato la Escola Nuno Gonçalves con la promessa di tornare a respirare un po’ di quell’aria genuina, spensierata e caotica che ha trovato nei suoi bambini.

Fedele frequentatrice del CNAI, il Centro Nazionale di Appoggio agli Immigrati, ho dunque chiesto aiuto e supporto per trovare un nuovo lavoro. La prima volta che mi sono trovata in quell’edificio, mi sono guardata intorno curiosa: mentre la vita fuori scorreva, io osservavo una fila di colori in attesa di una strada migliore da percorrere. Occhi pieni di speranza, alcuni verdi, altri scurissimi, pieni di sonno ma raccolti di tanta allegria. Ero uno dei pochi presenti con la pelle pallida. Ero una delle poche donne presenti.

E’ stata una sensazione forte, indelebile. E credo rimarrà tale.

Da novembre frequento un corso serale di portoghese per falantes de outras línguas (parlanti di altre lingue), indetto dal Ministero dell’Istruzione e volto all’integrazione dei cittadini stranieri a Lisbona: sono in una classe con quindici nazionalità differenti. Una delle poche ad essere con la pelle pallida. Di nuovo. Le donne sono una minoranza, anche al corso.

Due volte a settimana, dalle 19 alle 22, rimango incollata a quella sedia, assonnata ma adrenalinicamente decisa ad assorbire ogni cosa: il mio fedele compagno di banco è romeno.

Continua e inarrestabile commistione di culture: ogni cosa che impariamo di portoghese si mescola alle diverse prospettive presenti in quell’aula. Autentica sopa (minestra) culturale. Quanti colori. Quanti gesti. Ogni volta che chiudo il quaderno e saluto, mi sento sempre più strana e confusa. Come se fossi sistematicamente investita da queste persone. E riparte la volontà di vivere per chi, come me, sta provando a crearsi un cammino. Di fiducia e di vita. Lontano. Distante.

La settimana scorsa mi sono annotata un pensiero sul quaderno: «citare tema conversazione di oggi nel prossimo articolo di Sguardi». La professoressa, nella sua abbondante e imponente figura di donnona, ha spiegato l’elevato maschilismo portoghese che sporca anche Lisbona. Ne ha raccontato attraverso alcuni aneddoti, a volte vissuti «sulla sua pelle». Ha evidenziato la virilità che molti uomini portoghesi ostentano in macchina e nella velocità che percorrono, raccontando il disprezzo che questi hanno per le donne al volante. In quel momento una ragazza ha sbottato dicendo: «È una caratteristica più europea che nazionale…». Alcuni uomini si sono girati un po’ provocati e quasi offesi. Uno di questi ha aggiunto la sua prospettiva: in Russia, suo paese natale, succede spesso il contrario e le donne al volante si infastidiscono quando un uomo guida piuttosto piano. Penso che sia una reazione universale, non solo russa e non solo femminile.

L’argomento è stato tuttavia toccato solo dalla professoressa, ad eccezione di alcuni commenti. Ho per un attimo sentito nell’aria un velo di imbarazzo: il tema è mutato senza altri scambi d’opinioni. Probabilmente per la delicatezza o per la presenza di numerose e diversissime culture, non è stato approfondito il dibattito. E la donna al volante è rimasta di nuovo un banale e insopportabile cliché.

Di cortesia, qui ce n’è tanta. Soprattutto rivolta alle donne.

Da quando sono qui, noto rispetto e cordialità. I dati (che comunque sempre numeri sono) dimostrano che la donna ha un ruolo importante anche nel mondo professionale. Più del 70% delle donne lavora. La media è più alta rispetto a quella europea. La vera e propria parità non è ancora stata raggiunta, vi sono squilibri tra gli stipendi di uomini e donne ma, sempre secondo dati e numeri, il Portogallo è leggermente meno misogino del resto europeo.

Pausa di respiro.

Sarà veramente così? Sono ancora un po’ acerba alla realtà lavorativa portoghese. Aggiornerò più avanti.
La realtà è quotidianamente difficile anche in Portogallo. Ogni giorno ricorda la crisi in cui il Paese è sprofondato. È una realtà che non sempre permette di trovare un lavoro, nonostante gli studi e le esperienze professionali. Abbatte con le complessità, gli imprevisti, il pessimismo e la poca fiducia.

Ma sorride: coi colori, col vento caldo, coi saluti in tanti modi, con l’umanità e con l’amicizia.

 

PS. La poesia introduttiva fu partorita di getto qualche giorno dopo una sgradevole collisione su un marciapiede di Lisbona, di sera mentre tornavo dal corso di portoghese. Un uomo ha violentemente scaricato le sue frustrazioni. Fortunatamente solo una grande paura e un livido sul braccio.
E anche quel giorno mi sono chiesta, invasa di nervoso e vomito, quante donne vengono psicologicamente e fisicamente mancate di rispetto. Quotidianamente. In tanti modi urlo di smetterla. Ma sono sempre in pochi ad ascoltarmi.

Etty Hillesum, mia grande guida intellettuale e umana, nonché scrittrice olandese di origine ebrea uccisa ad Auschwitz nel 1943, scriveva:

«Non trasformare i tuoi sentimenti in odio. Dai al dolore dentro di te lo spazio e il rifugio che merita,
perché se ognuno accetta quello che la vita gli impone con onestà, lealtà e maturità,
forse il dolore che riempie il mondo si placherà».

Voglio crederci.