Chiara Carpita si aggiunge oggi alle amiche italiane che ci scrivono dall’estero e che ci raccontano come si vive e si lavora lontano dall’Italia. In questo momento così faticoso è auspicabile se possibile andarsene un po’ di anni, fare esperienza e tornare per migliorare il contesto culturale italiano. Tutto il blog oggi è dedicato alle amiche corrispondenti sia perchè ne ammiro la forza e la perseveranza nel ricavarsi una posizione, sia perchè consocere altri modi di vivere e di pensare ci aiuta ad uscire dalle gabbie. Spesso nelle scuole le ragazzine/i mi dicono “ma tanto la tv è così ovunque?” Non è così come sappiamo, e andarsene per un po’ aiuta ad allargare i nostri orizzonti.

Carissime, CarissimiVi scrivo da
Oxford. Sta nevicando, sono appena uscita da una lezione sul romanzo l’Invitata di Simone de Beauvoir. Continuo a pensare a Françoise, all’uccisione di Xavière, l’intrusa, il tradimento che rompe l’equilibrio di coppia . Il sogno di unione di Françoise crolla, scopre di essere stata solo mente, che il binomio mente-corpo non si è mai risolto dentro di lei, lo scopre incontrando l’altra, Xavière, la giovane donna bella e vitale. “Credete che il sogno di fusione dell’amore sia possibile? Esista ancora? Sia ancora possibile crederci?”. A questi Gender Seminars ho incontrato e preso contatti con il gruppo femminista di studentesse di Oxford (OUSU Women’s Campaign) con il quale mi incontro tutti i lunedì per discutere e organizzare conferenze, dibattiti, attivismo in rete. Anche in UK la rete è diventata il luogo ideale per la nascita di un nuovo movimento femminista la cui agenda è riassunta nel manifesto militante “Reclaiming the F world” di Catherine Redfern e Kristin Aune, un libro che raccoglie discussioni, idee, passione delle attiviste che hanno partecipato al blog “the f-world” da cui prende il titolo il libro (www.thefworld.org.com).

Sono arrivata in questa città nel 2009 con una borsa di studio per europei finanziata dall’AHRC (Art and Humanities Research Council). Questo è il mio secondo dottorato di ricerca, il primo in Letteratura Italiana a Siena poi la fuga nella speranza di costruire un futuro all’estero. Sono in molti della mia generazione ad aver tentato il secondo dottorato come alternativa al vuoto che si apre dopo aver discusso la tesi. Il titolo di dottore di ricerca nel nosto paese continua a non essere riconosciuto fuori dall’accademia, questo significa che non ha nessuna spendibilità se si pensa che la carriera accademica è ormai diventata impossibile. Ed è ricosciuto in modo assolutamente inadeguato per l’insegnamento nella scuola media inferiore o superiore (solo 12 punti per tre anni di formazione, esperienza all’estero e pubblicazioni). La crisi delle Humanities si è ormai diffusa ovunque, i tagli di finanziamenti ai dipartimenti di  italianistica e modern languages stanno riducendo i posti di lavoro per i giovani, lo sfruttamento di lavoro precario dei post-graduates è la regola ovunque anche negli USA dove la situazione non è migliore. Anche gli strutturati in alcuni casi rischiano il posto di lavoro. La sensazione è che non esista più un rifugio, che l’emigrazione sia solo un passaggio, invece che un radicale cambiamento di vita, che non si riesca ad uscire dalla spirale della precarietà.

Oxford è una citta bellissima con alcune delle più grandi biblioteche del mondo come la Bodleian Library e i suoi 38 college. La vita della città è organizzata attorno ai college, il mio Somerville è stato il primo ad accogliere le donne nel 1879 qui si sono formate donne come il premio Nobel per la scienza Dorothy Hodgkin, Vera Brittain, Iris Murdoch e la “iron lady” Margaret Thatcher. I college sono luoghi ideali per fare ricerca, ogni college ha una propria biblioteca all’interno dove si può rimanere a studiare senza limiti di orario. La città è popolata sopratutto da studenti, ma è in realtà molto tranquilla. Tutto è ordinato, non si ha mai l’impressione del caos, neanche nelle ore di punta. La calma con cui gli inglesi affrontano le file che si formano per vari motivi è stata una scoperta. La filosofia del “queuing” dopo averla praticata per un po’ di tempo cominci ad apprezzarla, finisce per prenderti e allora tornata in Italia non sopporto più le ammucchiate per salire sull’autobus. È bello che c’è sempre qualcuno che si preoccupa che tu stia facendo la fila per qualcosa. Non è possibile poi non pagare il biglietto visto che viene fatto obbligatoriamente a bordo.

Questo ordine apparentemente repressivo si accompagna invece ad una grande libertà: di vestire, di apparire. Come donna noto subito come nessuno si interessa al tuo abbigliamento, che nessuno ti giudica da quello che hai addosso.  E che nessun uomo commenta per strada sul tuo aspetto. Non ti senti né osservata, né giudicata come in molte città italiane ancora oggi succede. Quando le studentesse di Oxford devono fare il loro “year abroad” per perfezionare l’italiano vengono avvisate del vizietto nostrale di fischiare alle donne, fare battute volgari. È scritto nel programma ufficiale e tutte ridono senza capire come sia possibile una cosa simile. Bisognerebbe avvertirle però anche di non attraversare sulle strisce pedonali, perché in Italia a differenza di Oxford nessuno si fermerà. Del resto dopo la vicenda Berlusconi gli uomini italiani nel loro immaginario sono tutti un po’ maniaci ed infantili. Come dargli torto.

Questo paese dall’apparenza così liberale ha però i suoi lati oscuri: la società inglese è classista, gli upper classes fanno gruppo nei college e sono chiusi all’esterno. È una società dove la classe dirigente privilegiata si auto-riproduce e il sistema educativo è il primo a segnare una forte discriminazione, la mobilità sociale è ridotta. Gli ambienti accademici sono asfittici ovunque, corrotti dal nodo potere-conoscenza, ma se in Italia è il sistema baronale a decidere l’esclusione degli svantaggiati che non possono autofinanziarsi anni di lavoro gratuito, qui è la famiglia di origine e l’impossibilità di accedere ad un certo tipo di formazione che ti impedisce di avere le stesse opportunità degli upper-classes. Dove vivo lavorano due donne con due storie ugualmente difficili: una madre single che fa le pulizie e una signora inglese che fa la badante. Escludendo alcune care amiche italiane sono le persone con cui mi sento più vicina emotivamente e per destino, con cui è possibile una condivisione autentica.

Said diceva chel’intellettuale in epoca globalizzata è l’esiliato, escluso tra gli esclusi. Luperini, uno dei miei maestri, ha ricordato il destino della nostra generazione parlando proprio di Said. Precari, ai margini della società, ma che vivono la loro dislocazione nello spazio per i viaggi della speranza all’estero e nel tempo per l’impossibilità di una qualsiasi progettualità. Come umanisti l’unico vero discorso che ci riguarda è quello della migrazione dei popoli che cercano di costruire una nuova vita in un mondo che credono migliore del proprio per opportunità, prospettive, umanità. E scoprono invece la difficoltà, il rifiuto della diversità, un futuro con poche o nessuna speranza. C’è una ragazza forse dell’Est con un cane che mi fa sentire a casa in questa città. Disegna in terra con dei gessetti colorati e accanto ai disegni infantili di case, nuvole e uccellini c’è scritto: “Ask for directions. I’m here to help you!”.  Lei è l’unica persona che sa dirmi dove sono e perché non devo sentirmi sola. La saluto, gli do qualcosa e gioco con la sua cagnolina che si chiama “Thorns”. L’ho vista anche nella neve oggi, la saluto, ci guardiamo, non c’è niente da dire.