Ecco la seconda lettera da Parigi.
Seguo con passione Giulia Camin, mi piace come scrive e come si rapporta a Parigi città dove anch’io vissi 3 anni e da cui ho imparato molto.
Grazie Giulia e buona lettura a tutte!

Care amiche,

sono passate soltanto due settimane da quando vi ho scritto, eppure i colori intorno a me sono già diversi. Qualche pioggia insistente ha dato inizio all’autunno, la temperatura si  abbassata, golfini e giacche sono tornate protagoniste di una buffa coreografia collettiva. Un frenetico “metti e togli” tipico delle settimane di mezza stagione e necessario soprattutto a Parigi, dove il tempo cambia continuamente. Ho letto da qui le principali notizie che riguardano l’Italia, cogliendo le perle di grande poesia che ci sono state offerte; penso all’ignobile barzelletta sullo stupro delle suore consenzienti pronunciata dal ministro (lo scrivo con la minuscola) sacconi, alle dichiarazioni di un certo premier che se ne vuole andare “da questo paese di merda” e che definisce Angela Merkel una “culona inchiavabile”. Questi gossip (non chiamiamole notizie) che sembrano provenire da un imbarazzante mondo alieno, fatico a giustificarli ai miei nuovi connazionali che mi chiedono un commento. Ma questo sarà tema di un’altra lettera; oggi vorrei parlarvi di precariato e accesso al mondo del lavoro, e nel farlo vorrei aprire una riflessione collettiva, un confronto fra le vostre esperienze e le mie.

Inizio dunque dalle mie: una mia candidatura è stata accolta, ho passato una selezione e ho ottenuto il posto. Si tratta di un buon posto di lavoro, quello che sognavo, e di un’opportunità  che cambierà radicalmente le mie prospettive professionali. Possibilità  non scontata visti i tempi che corrono e visto che, per autolesionismo o passione, il mio ambito di lavoro è quello della cultura.
Mi chiedo: avrei potuto aspirare ad un simile cambiamento oggi, nel mio paese d’origine? La risposta purtroppo è un secco, inequivocabile, NO.  Insieme alla felicità e alla soddisfazione personale vengo quindi sopraffatta da un leggero senso di colpa. Sì, perché non posso esimermi dal pensare a tutti voi, voi che purtroppo sapete bene cosa voglia dire essere precari, iper-qualificati e sottopagati, costretti ad assistere al declino di una nazione che non ha investito nei vostri percorsi di studio, nelle vostre energie e competenze.  Non voglio scivolare in un mare di stereotipi, anche se a volte mi sembra inevitabile attraversarli per metterli alla prova. Cosa mai ci sarà di diverso all’estero, cosa c’è di vero nel tanto ripetuto “si sta meglio qui”? Beh, intendiamoci, la Francia di oggi non è affatto il paese dei balocchi; nessuno ti rincorre per regalarti un posto di lavoro, ma almeno lo stato cerca di aiutarti se non ce l’hai o se non sai  come muoverti per cercarlo.
La differenza principale è, per quanto io abbia potuto constatare, fondamentale, ed è la seguente: qui c’è più legalità, più trasparenza e più meritocrazia.  Anche qui, per carità, ci sono gli agganci, gli ammanigliati, gli amici degli amici, come dappertutto; ma è davvero difficile trovare, nel mondo della cultura, dei veri incompetenti con incarichi di grande responsabilità. Difficile vedere persone non qualificate dirigere istituzioni prestigiose su cui si fonda la valorizzazione del patrimonio culturale nazionale e l’educazione dei cittadini alla consapevolezza del proprio territorio; raro, per non dire impossibile, che avvengano assunzioni senza che un preventivo bando sia stato aperto pubblicamente, e che la scelta dei candidati avvenga attraverso varie fasi di  selezione dei curricula e colloqui approfonditi. Per non dire poi che i fondi per la cultura non sono confrontabili a quelli previsti in Italia, qui teatri, cinema, istituzioni culturali, musei, centri d’arte, biblioteche, come università, scuole ed asili, sono ovunque e vengono tutelati e protetti, seppur la crisi economica e i conseguenti tagli abbiano investito anche questo paese e  naturalmente questo settore.
Dalla prospettiva di straniera che si sta integrando nel mondo del lavoro francese, ammetto quindi di percepire qui un’aria di maggiore serietà, e questo mi da un enorme sollievo. Sentirsi tutelati, messi alla prova soltanto sulla base delle proprie competenze, sapere quali sono i posti di lavoro vacanti e quali saranno le modalità di assunzione non è per me un’esperienza scontata. 
Leggo e sento spesso parlare dei giovani all’estero come di gente alla ricerca di un’eterna movida, e mi accorgo di quanto queste immagini siano lontane dalla mia realtà: io non sono affatto scappata per provare chissà quale forma di evasione o libertà,  io ero al contrario alla ricerca di rigore, trasparenza, e legalità!  Ovviamente non credo che andarsene all’estero sia la sola soluzione possibile, e i vostri commenti lo testimoniano. In ogni caso, visti i dati dell’Ocse in materia che ci aiutano a quantificare la piaga del precariato in Italia, a chi resta e non può o non vuole partire ma vorrebbe lavorare nel mondo della cultura e delle istituzioni culturali vorrei dare un piccolo consiglio. Sono convinta che, nel momento della negoziazione contrattuale, visto che il capitale in cui investire siamo noi, ci sia nelle nostre mani un arma importantissima: quella del rifiuto. Il rifiuto è un atto rivoluzionario,  e se dichiarato e motivato con le dovute attenzioni,  può diventare un gesto altamente liberatorio e costruttivo, formativo per se stessi e per gli altri. Manifestare platealmente il proprio rifiuto, sottolineare la  non accettazione di situazioni e contesti che affossano i nostri diritti e le nostre aspirazioni professionali diventa un’azione fondamentale di difesa della nostra libertà, atto  che sottolinea la ferma volontà di non diventare complici di un sistema malato e anti-meritocratico.

Insomma per farla breve, per venire al punto vi propongo una lista scritta a matita in metropolitana mentre andavo a lavoro. Si intitola: “Listino delle cose a cui dire no, esposte senza ordine logico né alfabetico e basate su opinabili ma esperite opinioni personali di confronto fra l’Italia, la Germania e la Francia”.

 

  • NO ai baroni universitari, quei docenti che non hanno rispetto dei loro studenti: non si presentano a lezione, arrivano in ritardo ai ricevimenti e non leggono le tesi di laurea.

 

  • NO ai contratti di affitto in nero per gli appartamenti per studenti (a Venezia funziona solo così, tornassi indietro denuncerei tutti!). Qui lo stato ti aiuta a pagare l’affitto, se dimostri di doverne pagare uno, non esistono quelle schifezze di finti contratti all’italiana! Basta illegalità!

 

  • NO ai contratti di lavoro  farsa, come quei contratti a progetto che richiedono una presenza sul posto di lavoro a orari prestabiliti; no ai contratti che non assicurano ferie, malattie, contributi pagati. No ai ricatti perpetuati e basati sull’illusione di una futura fantomatica assunzione. 

 

  • NO ai master a numero chiuso, con SOLO 300 iscritti e rate di iscrizione a partire da 4.000 euro, No all’esubero di corsi di laurea simili fra loro che creano un esubero di laureati senza reale sbocco nel mondo del lavoro

 

  • NO alle inutili gavette senza fine, ai tirocini e stage e praticantati senza retribuzione o rimborso, no ai lavori non retribuiti perché quello che conta  è se “l’istituzione” è rinomata e poi tanto fa curriculum! (tanto non li leggono!) 

 

  • NO ai dottorati senza borsa! La borsa è la vostra, siete voi che pagate per fare ricerca, siete davvero sicuri che ne valga la pena? Chi accetta diventa complice e corresponsabile del meccanismo “aggratis” per loro, tanto pago io.

 

  • NO alla stampa, ai media che trasformano la piaga del precariato giovanile in un’antologia aneddotica da quattro soldi e che anziché occuparsi seriamente del problema preferiscono  dedicarsi alla descrizione del culo di Pippa Middleton o della pancia di Carla Bruni.

E’solo un inizio, ed è ovviamente una lista incompleta. Se vorrete integrarla a seconda delle vostre esperienze, ve ne sarò grata. I riferimenti al mondo dell’università sono secondo me necessari, se consideriamo che formazione e lavoro dovrebbero fare parte di un unico grande e  fluido meccanismo, come è in altri paesi europei.

Continuo a essere certa che se si smettesse di accettare l’inaccettabile, non oserebbero più proporcelo, e questo mi viene confermato dall’atteggiamento dei nostri più o meno coetanei europei. Sarà un’utopia, ma qui in Francia nessuno si permetterebbe di offrire a un giovane qualificato uno stage non pagato  senza rimborsi spese anche per i mezzi di trasporto. Qui il minimo salariale è una garanzia, lo stato è una garanzia, e quando il sistema è trasparente sono i diritti di tutti noi ad essere tutelati. Al primo diritto calpestato si fa gruppo, rete, si fanno passi indietro, ci si aiuta. L’individualismo all’italiana non porta grandi  frutti e va combattuto per cambiare una mentalità che, anche dopo la caduta di Berlusconi, sarà comunque dura a morire. Non lo pensate anche voi? Non avete voglia di sabotare questo intero sistema di sfruttamento e mafie legalizzate? Non siete arrabbiatissimi? Tifate anche voi per chi manifesta con coraggio la propria resistenza, penso ad esempio agli indignados spagnoli ma anche e soprattutto al popolo No Tav?
Dell’Italia non solo non mi mancano i datori di lavoro disonesti, ma non mi mancano neanche i colleghi pavidi, sopraffatti dalla paura di far valere i propri diritti, incapaci di reagire ma dediti al quotidiano lamento e piagnisteo.  Non ho mai provato empatia per chi si lamenta del caldo ma non ha voglia di alzarsi per aprire la finestra. E voi? Voi reagite?

Vi saluto con una poesia di Martha Medeiros che si intitola “Lentamente Muore”.
Statemi bene, un abbraccio e a presto,

Giulia

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e chi non cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero sul bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno.

Lentamente muore chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità“.