LISBONA! Che succede in PORTOGALLO?
Del Portogallo non si legge mai nulla. Ritengo sia una fortuna avere lo sguardo di Chiara Baldin sulla realtà lusitana, un modo diretto per essere informate. Grazie Chiara!
Le foto sono di P.N.

Ci vuole coraggio a restare, a scavare dentro se stessi

per cercare la forza per combattere,

scarnendo le proprie carni, sentendone il dolore

e sopportandolo con fierezza.
Ci vuole coraggio ad andare.

A voltare le spalle a ciò che conosciamo

e ci è familiare per l’ignoto.
Ci vuole coraggio a essere italiani.

Nel restare, così come nel partire.

E questo, per me, dovrebbe essere per tutti profondo dolore.
A. Vitaliano

Soffro di vertigini da quando sono piccola. Ricordo le volte in cui salivo sulla cassapanca della cucina per prendere le matite da una scatola: quando guardavo giù mi veniva la nausea. Qualche settimana fa un mio collega di scuola mi ha proposto una scalata sulle rocce di montagna, una delle attività sportive più praticate dai portoghesi: ovviamente ha risposto la mia incoscienza, accettando l’invito con entusiasmo. Ammetto che scalare è sempre stato un mio grande desiderio, ma ogni volta è mancato lo slancio giusto per buttarmici. Quel sabato è stato un giorno indimenticabile: immersa nella natura e nell’aria lusitana, tra spiegazioni in portoghese sui moschettoni e incomprensibili dialoghi ad “alta” quota, ho scalato due rocce di dieci metri ognuna. Mi sentivo così piccola e fragile lassù: creatura un po’ italiana, un po’ tedesca, un po’ europea sopra una roccia portoghese. Sarebbe bastato un attimo di distrazione e quella creatura si sarebbe schiantata sul pendio lusitano. Salivo, tenendomi con le dita delle mani e le punte dei piedi. La seconda roccia era molto ripida e ad un certo punto ho sentito scricchiolare qualcosa dalla cintura che mi teneva sospesa: ho provato a spiegare con il mio acerbo e impaurito portoghese cosa stava succedendo, ma il mio collega non ha capito e mi ha fatto scendere. Nell’agitazione ho perso l’equilibrio e, sempre sospesa, sono andata a sbattere contro una conca.

Credo che per un po’ la roccia non mi vedrà: ma intanto ho provato a superare una delle mie paure più grandi.

Anche l’Oceano aperto mi ha conosciuta recentemente. Con Carla, un’altra collega, ho potuto trattenere il respiro di fronte ad un’infinita distesa d’acqua argentata. Siamo state alla Praia do Meco, nei pressi di Sesimbra (regione a sud di Lisbona): onde alte un paio di metri, acqua congelata per una mediterranea abituata a brodino adriatico. Entravamo caute coi piedi e, appena arrivava l’onda gigante, correvamo a riva in attesa che si scagliasse contro la sabbia e tornasse calma per qualche istante. Sembravano in una danza. E per qualche istante ne ho sentito la perfezione. Ero felice di essere in quel posto, in quel preciso momento.

Martedì sono andata con Carla al Centro Culturale di Belém, per il “Dia Tabucchi”: una giornata letteraria dedicata allo scrittore italiano. Con me, il libro Sostiene Pereira, debitamente consigliatomi da due buoni amici. Tra il pubblico, l’autore. La lettura in portoghese di alcune opere e il saluto di Tabucchi al pubblico mi hanno riempita di aria familiare: ho conosciuto giovani che per svariati motivi sono come me lontani da casa e da ciò che li ha cresciuti. Nell’attesa di un autografo, il breve confronto ci ha per un attimo uniti riportandoci altrove. A quell’Italia che tuttora sta respirando a fatica.

Ci sono giorni, anche qui a Lisbona (come quando abitavo in Germania), in cui mi sento molto bene. Avverto la fortunata possibilità di essere all’estero, conoscere nuove prospettive, incontrare persone e modi di vita diversi, mangiare sapori sconosciuti. Da lontano si notano meglio le mancanze del proprio Paese, gli aspetti positivi e quelli più spiacevoli: mi rallegro quando percepisco cosa si potrebbe migliorare in Italia e cosa invece potrei esportare delle mie radici, nei luoghi in cui ora cammino e abito. Vivo e mi formo a tanti chilometri da chi e da ciò che mi ha cresciuta, sentendone l’esigenza perché nella mia terra ora non sono e non sarei né ascoltata né  considerata.

Ci sono tuttavia giorni in cui mi chiedo cosa ci faccio lontana dal quel Paese che, alla vista di tutto il mondo, da anni si sta sfracellando con le proprie mani. E vorrei fare qualcosa per aiutarmi e quindi aiutarlo. Ogni volta che ho di fronte a me la possibilità di partire, da una parte non vorrei andarmene. Perché so che nel mio estremamente piccolo potrei dare ogni giorno qualcosa, al Paese in cui sono cresciuta. Perché vedo la fatica che fanno gli amici e i miei familiari a tenere la testa alta nonostante tutto. Nonostante gli svariati ostacoli, le frustrazioni e la poca valorizzazione che subiscono quotidianamente. E perché ogni volta che me ne vado da chi amo è sempre un periodo di apnea e fatica. Ma la parte che spesso vince è la volontà di partire. Sento di appartenere al mondo: sono nata in Italia, sì; ho la mia famiglia e i miei amici in Italia, è vero. Ma sento di essere del mondo, ospite e tassello di un puzzle più grande che non si limita all’Italia, che non ha confini né frontiere disegnate o imposte. Io non sono solo italiana: sono un po’ di ogni persona e ogni cultura che ho conosciuto nei miei anni di vita. E voglio conoscere, immergermi per poi risalire e condividere.

Parto anche per un altro motivo: voglio “farmi le ossa”, perché ho bisogno di sentirmi valorizzata sia come persona sia come figura professionale. Non so se sia un caso, una fortuna o se c’entri anche la mia indole di adattamento alle situazioni, ma finora le esperienze estere sono state autentica fonte di riconoscimento umano e professionale. Torno sempre in Italia con un bagaglio preziosissimo che vorrei condividere ma che spesso non ha voce. Ho la continua sensazione di non essere ascoltata né capita, quando torno… o forse, come mi insegnò un buon maestro, sono io che non mi spiego.

Chiara Baldin