In questi ultime settimane trovo faticosissimo scrivere e leggere il blog, mi pare un avvitamento su se stessi  spaventoso: il mondo crolla, l’Italia è sommersa di merda, e noi disquisiamo  per intere giornate su dettagli di pochissima importanza. Gli unici interventi maschili, a parte quelli di pochi miracolosi uomini sopravvissuti, sono provocatori in maniera sterile: cioè non generano nulla se non frustrazione. Come un accoppiamento che non giunge all’eiaculazione.  Ripeto le stesse cose da un anno e mezzo e sapete perchè? Perchè ho un obbiettivo educativo, perchè mi pare spaventoso cio’ che fanno alcuni blogger e giornalisti, buttano il loro pensiero enigmatico in bocca ai lettori senza assicurarsi che comprendano, senza capire se stanno innalzando il loro livello di consapevolezzza. Così ripeto; e mi sento male però quando l’ultima saccente arrivata  mi dice: “Lorella ohibo’ ma dovresti leggere le femministe!” Mi vengono in mente allora  i vecchi professori, ci fossero ancora!, che per una stronzata così ti facevano scrivere 1000 volte: “prima di parlare devo pensare a cio’ che voglio dire”. Tutti hanno diritto di parlare, basta vedere la tv e a chi invitano; quindi  chi legge un blog si sente in diritto di vomitare  le sue 4 idee addosso agli altri. Ogni tanto  tento di alleggerire il discorso, ironizzo sulla Kidman, e tutte a dire: ” ma la kidman no! no! poverina! ma ce l’hai con lei?!”  Ma state scherzando? Ma vi divertite a stare tutto il giorno a parlare di queste cazzate? Chi se ne frega della kidman. Il mio lavoro non ha l’obbiettivo di verificare il botox di una miliardaria. Ieri ho visto la registrazione dell’intrattenimento tv delle ultime settimane: ad un certo punto ho spento l’audio: ore di culi, culi, culi, e ancora culi. Culi in primo piano, culi sodi, culi con filo perizomico, culi in lingerie. E facce, tante facce di ragazzi con bocche aperte, con sorriso ebete, con lingua a penzoloni. La telecamera che passava da una chiappa infantile a un volto di ragazzino perso nella chiappa. Un intorpedimento bestiale, una narcosi collettiva, un rimbecillimento assoluto: culi come rimedio al fallimento del Paese.

Ho assistito ultimamente a dibattiti femministi dove regnava l’ostilità e il rancore e la compassione non si sapeva più dove fosse. La situazione è gravissima e c’è bisogno di gente che fa. che fa con competenza dell’esserci. Che fa con amore. Che fa con senso di grandissimo Materno. Che fa con il corpo aperto al cambiamento, che fa come le Donne sanno fare. Con o senza tacchi, ma perdio, ricordiamoci  di avere un femminile e che è impellente utlizzarlo.

Il Signor Mario

Arrivo in ospedale verso l’una di notte. Un infermiere mi fa cenno di seguirlo: entro in una stanza grande, nella penombra mi appaiono i letti dei malati. Il signor Mario è il primo a sinistra, mi dice sottovoce l’infermiere. Prendo una sedia. Un paravento divide il letto da quello del vicino: che di là c’è qualcuno lo capisco da un lamento flebile e ininterrotto.

Intravedo la sagoma del signor Mario sotto la coperta, la sola luce è quella che filtra dal corridoio. Rimpicciolito dalla malattia, le braccia stese sopra il lenzuolo, la testa reclinata a sinistra, respira piano. Non pare riconoscere più. Però non ne sono certa. Il signor Mario è un amico di mio padre. Vecchio, separato, senza figli, non ha parenti. Da qualche mese ha un cancro e stanotte sta morendo.

Mi hanno chiamato dall’ospedale verso mezzanotte: è l’unico numero telefonico che avevano. Mi sono vestita velocemente e sono corsa qui. Non c’era nessun altro da chiamare. Qualcuno doveva venire.

Lo conosco da anni, ma non abbiamo mai avuto rapporti stretti; mi dispiace che stia morendo, ma non sono disperata: semplicemente, non lascio morire una persona da sola, faccio ciò che è giusto fare.

Gli prendo la mano, asciutta, la pelle screpolata com’era quella di mia zia poche ore prima di morire. La pelle si asciuga quando sei moribondo, l’ho imparato. Tendo la mano verso una scatoletta di crema sul comodino, l’avrà portata mia madre ieri. Ne prendo un po’ e comincio a spalmargliela piano sulla mano, sul polso, fino al gomito. Non so se ne senta il beneficio, nulla traspare dalla sua espressione.

Faccio piano, molto piano, mi pare, la sua, una pelle delicatissima, trasparente.

Con lo sguardo abituato all’oscurità intravedo le labbra screpolate e leggermente socchiuse. Dal comodino prendo un bicchiere, verso dell’acqua. Poi con un cucchiaino ne faccio scivolare un po’ tra le labbra del signor Mario. So come si fa perché l’ho visto fare a mia madre, quando assisteva la zia Elvira. Mia madre l’ha imparato da mia nonna Bice. Mia nonna Bice a sua volta l’avrà appreso da sua madre.

Inizio a parlare, sottovoce, mentre gli tengo la mano. Racconto le cose che so di lui, del suo passato; parlo di episodi che abbiamo vissuto insieme: un Natale che aveva trascorso con la mia famiglia, una volta che avevamo riso di uno scherzo fatto a mio padre, la sua passione per la pasta fatta in casa, cose così. Respira piano adesso.

Intorno rumori da lontano, pochi infermieri che passano. Il vicino a un tratto grida. Mi alzo e chiamo un infermiere. Arriva e gli versa una medicina. “Sta morendo,” mi dice.

Le prime luci dell’alba filtrano dalle tapparelle: l’ospedale è nel centro di Milano. Si sente il traffico che riprende. Guardo il signor Mario, ma lui non pare accorgersi di nulla. Fa niente, penso. Gli tengo ugualmente la mano, perché se invece dovesse capire potrebbe essere sollevato dal fatto di non essere solo.

“Mario, mi sente? La vuole un po’ d’acqua?, poca poca?”

Entra un infermiere, il rumore mi distrae. Sento una stretta alla mano, piano. Mario mormora qualcosa, mi avvicino e mi pare dica il mio nome. Mi ha riconosciuta, penso. Ecco, non si sa mai.

Arriva un medico, guarda il signor Mario. Mi comunica che ormai è alla fine e che, se anche gli parlassi, non mi riconoscerebbe. Guardo il medico, lui mi guarda di sfuggita ed esce.

Tengo la mano al signor Mario e lo guardo. Ora lo vedo bene perché entra un po’ più di luce dall’esterno. Ha ottant’anni, penso, in fondo non ha avuto una vita peggiore di altri. Ha avuto la sua vita ed è andata così, né bene, né male. Una vita come tante altre.

È ormai mattina inoltrata quando Mario mi stringe improvvisamente la mano, forte. Ha come un sussulto. Mi viene da accarezzarlo, lo faccio. E continuo ad accarezzarlo finché arriva l’infermiere: “é inutile,” mi dice, “è morto”. “Lo so,” gli rispondo, mentre continuo a passare la mano sulla testa, sulle guance, sulle mani del signor Mario. Piano.

tratto da Il Corpo delle Donne, ed. Feltrinelli