“Tempo fa, illustravo a una giovane donna, mamma e casalinga, il progetto Il Corpo delle Donne: era interessata, anche se pareva che di certi argomenti sentisse parlare per la prima volta. Dopo un po’ ci ha raggiunte il marito, che mi guardava ironico: di bell’aspetto, aitante, scherzava sul fatto che “le donne è meglio che restino a casa”. Poi ha guardato la moglie, e lei, come se io non fossi stata presente, tra l’incerto e il bisognoso di approvazione gli ha detto: “Marco, io ascolto ma alla fine non sono come loro”. Come me e come altre come me, immagino. “La miglior schiava non ha bisogno di essere battuta, ella si batte da sola,” ci ricorda Erica Jong in Alcestis on the Poetry Circuit.
I tentativi di sopravvivere con la propria originale identità vengono oscurati o rinnegati in favore delle regole del mercato, che sul corpo delle donne ricava cospicui profitti. E non c’è quindi poi molta differenza tra Cristina, che si dibatte tra una personalità che orgogliosamente dichiara “con le palle” e una sesta di reggiseno che si è procurata per rispondere alle leggi dello spettacolo, e una manager che avanza nelle rigide gerarchie aziendali sottoponendosi a ritmi di lavoro disumani, permettendo che logiche maschili di intendere il lavoro si portino via quegli anni che il suo corpo vorrebbe con forza destinare anche ad altro.
Paura, terrore.
Paura comprensibile, perché cercare di imporsi – ma qui vorrei scrivere, di esistere a nostro modo – prevede una profonda consapevolezza e una grande fiducia in sé, ma ancor più nelle nostre simili. E una buona dose di coraggio. Questo cammino verso una reale emancipazione non si attua né facilmente, né velocemente, tanto meno da sole. Il coraggio serve ad accettare che nei percorsi di cambiamento profondo difficilmente si ottiene il consenso della società.
Molte di noi, e io per prima, hanno creduto di avere coraggio a sufficienza per il fatto di aver sovvertito il sistema che ci voleva fuori dalle regole del gioco degli uomini, quelle sulle quali il mondo si organizzava. Alle leve del potere siamo arrivate pagando prezzi altissimi, che difficilmente si ha la generosità di denunciare. Perché è ora di dire che non era quella l’emancipazione che cercavamo. Non volevamo, per diventare visibili, e in’ultima analisi per esistere, dover abdicare al femminile profondo, che significasse un figlio o semplicemente un modo di essere. Il modello maschile che abbiamo introiettato e che fa sì che ora ci guardiamo come pensiamo che ci guarderebbe un uomo, quel modello che rende una velina sicura di piacersi di più con un seno sproporzionatamente grande perché risponde a un presunto desiderio maschile che lei confonde con il proprio desiderio, quel modello, dicevamo, è lo stesso che ci ha fatto aderire a un sistema di vita impostato su valori maschili, al quale ambivamo perché sembrava prometterci una meta incredibilmente attraente: esistere, finalmente. Con fatica e sconcerto, alcune di noi stanno prendendo coscienza del fatto che oggi il cambiamento in gioco è molto più grande e faticoso, poiché prevede un nuovo paradigma dove nuove regole, o meglio, nuovi stimoli debbano essere suggeriti da noi donne, per garantire l’esistenza del femminile nostro, ma soprattutto delle giovani donne.
In questa fase di transizione si resta sole, e certamente orfane di approvazione.
Senza dubbio, la prima approvazione che viene a mancare è quella maschile, che tante di noi faticosamente, in alcuni casi persino immolando la propria vita, hanno cercato. Perché è proprio questa l’approvazione di cui sentivamo il bisogno, quella degli uomini, con i quali, incuranti dei nostri veri bisogni, volevamo condividere il potere. Approvazione per un bel seno nuovo e un sorriso ammiccante, o approvazione per un piano di ridimensionamento del personale condotto senza pietà: alla fine è il riconoscimento maschile, l’unico che fino a oggi abbia contato, quello che cerchiamo.
Ecco perché è indispensabile unirci ad altre donne se vogliamo incamminarci verso un vero cambiamento, senza la paura di riconoscere la nostra fragilità nei volti delle compagne di percorso: il cammino può essere lungo e la meta non certa.
È vero, serve un coraggio da leonesse, perché il consenso lo si acquisisce velocemente solo raggiungendo obiettivi che richiedono di percorrere sentieri già battuti: e noi donne siamo state maestre nell’essere brutte copie di modelli già esistenti, sempre e solo per ottenere l’ambita approvazione. In un modo o nell’altro, anche qui vale la feroce seppur verissima definizione “schiave radiose”: schiave anche noi, e di un sistema.
È tempo di far capire al mondo chi siamo, e di mostrare cosa possiamo fare. Tempo di andare incontro alla nostra autenticità, e da lì partire per trovare la forza di costruire il nuovo. ”
tratto da “Il Corpo delle Donne”, ed. Feltrinelli