La nostra nuova amica GIULIA MONTANELLI ci scrive dall’Olanda, dove vive e da dove osserva l’Italia. Qui ci racconta del significato che si attribuisce alla parola FAMIGLIA in Olanda:vi chiedo di leggerlo e di riflettere insieme. Giulia vive in un Paese estremamente aperto rispettoso dei diritti.Ho osservato con stupore e indignazione le manifestazioni dello scorso fine settimana che hanno visto protagoniste le sentinelle in piedi, gruppi di persone che si riuniscono nelle piazze italiane e restano in piedi per ore, intente nella lettura di un libro, allo scopo di esprimere dissenso nei confronti della legge contro l’’omofobia: manifestazioni volte quindi non a chiedere un diritto, ma a chiedere che un diritto NON possa essere esteso ad altri. Ho provato invece un certo senso di conforto nel vedere le manifestazioni organizzate in risposta, immediatamente azzerato nell’ascoltare le direttive date ai Prefetti dal ministro Alfano, che dispongono di non registrare più unioni omosessuali avvenute all’estero e di cancellare d’ufficio quelle già registrate.

Sicché ho pensato all’assurdità della situazione paragonandola a quella olandese, che vorrei raccontare.
In Olanda non esiste solo il matrimonio quale forma giuridica della famiglia e quando si dice “famiglia” si allarga la visuale.

La legge olandese prevede che le relazioni familiari e le unioni stabili possano essere regolate in più modi. Sono permessi e regolati il matrimonio, l’unione registrata, il contratto di coabitazione e l’unione di fatto.

Innanzi tutto matrimonio, unione registrata e contratto di coabitazione hanno in comune alcune caratteristiche: sono consentiti solo tra maggiorenni (18 anni), ad eccezione di casi particolari; non è rilevante il genere o l’orientamento sessuale dei partner; i presupposti o gli accordi alla base del rapporto non devono essere in conflitto con la legge. Differiscono però in alcuni punti chiave, che descrivo di seguito.

Il matrimonio e l’unione registrata hanno un rilievo all’interno del diritto di famiglia e sono molto simili. Hanno lo stesso valore giuridico e presuppongono sempre un rapporto di coppia non solo caratterizzato dal mutuo sostegno tra i partner, ma anche da un loro legame affettivo-sessuale.
Sono ammessi matrimoni e unioni registrate tra persone dello stesso genere e l’unica vera differenza riguarda il loro scioglimento: il matrimonio richiede tempi più lunghi per il divorzio (e comunque molto brevi se paragonati a quelli italiani: da pochi giorni in assenza di figli a qualche mese in presenza di figli), mentre l’unione registrata di scioglie istantaneamente con una firma, sempre ammesso che non ci siano figli: in questo caso matrimonio e unione registrata sono praticamente sovrapponibili.
Famiglia ai fini del diritto è quindi fatta da persone che condividono affetto e intimità, a prescindere dal genere e dalla procreazione: sono infatti ammesse adozioni da parte di single e di coppie omosessuali e la PMA è accessibile a tutti. Valgono inoltre delle regole generali: non si può essere sposati o registrati con più di una persona per volta; chi è sposato non può registrarsi e chi è registrato non può sposarsi; non sono permessi matrimonio e registrazione tra chi ha legami di sangue stretti: tra genitori e figli, nonni e nipoti e tra fratelli e sorelle, con alcune eccezioni nei casi di adozione.
Preciso che l’unione registrata è nata per rispondere alla richiesta delle famiglie LGBT di avere una forma giuridica. Da quando, nel 2001, il matrimonio ha smesso di avere un genere, l’unione registrata ha perso di fatto la ragione per cui è nata, ma resta possibile.

Ma proprio per alcune di queste limitazioni, appariva riduttivo fermarsi lì. Perché un nucleo familiare può essere anche allargato, non necessariamente è fatto di coppie che condividono la loro intimità, ma anche solo da persone che vivono tra loro e si vogliono bene, magari perché condividono un legame di parentela o semplicemente di amicizia.
Nella mia famiglia hanno vissuto insieme per 30 anni un’anziana zia e uno dei suoi nipoti. Lei è rimasta vedova e lui non si è mai sposato, e per tante ragioni si sono trovati a vivere insieme. Hanno vissuto nella stessa casa per anni, dandosi reciproco aiuto e conforto. Alla morte di lei, l’unica cosa che ha potuto fare per questo nipote amato come un figlio è stato lasciargli in eredità la piccola casa in cui abitavano insieme, ma lui ne è rimasto terribilmente impoverito: insieme vivevano con due piccole pensioni, ma alla morte di lei lui non ha potuto avere nulla. Eppure erano una famiglia anche loro: non in senso giuridico, ma certo in senso affettivo.
Per tutelare queste persone, che restano escluse dal matrimonio e dalla registrazione dell’unione, è comparso lo strumento del contratto di convivenza.

Il contratto di convivenza non ha rilievo per il diritto di famiglia (se persone che hanno un contratto di questo tipo dovessero avere figli, ricadrebbero automaticamente nelle prescrizioni di legge del caso, perché i diritti dei figli esulano dagli accordi tra i genitori) e può essere assimilato ad un contratto privato di mutuo aiuto, al quale si possono ricollegare alcuni effetti di natura pubblica. Attraverso questo contratto le persone coabitanti possono stabilire di dividere i costi di mantenimento della casa e di supportarsi a vicenda economicamente; possono stabilire regole per la gestione dei propri conti correnti, dei propri guadagni e beni. L’accordo può essere redatto con scrittura privata oppure da un notaio con atto pubblico. In genere si utilizza la forma dell’atto pubblico perché è necessaria per gli effetti di natura pubblica: per poter avere dei diritti sulla pensione del partner; per i riconoscimenti che le aziende prevedono per i dipendenti che vivono una relazione di tipo familiare; per il riconoscimento della convivenza ai fini fiscali.

Infine, nel caso di unioni stabili non formalizzate in alcun modo (unioni di fatto nelle quali la stabilità è definita dal semplice passare del tempo), esiste comunque la possibilità che si determinino conseguenze giuridiche direttamente previste dalla legge nel campo della tassazione e della sicurezza sociale.

Alla luce di questo, mi domando: ma perché in Italia non riusciamo a considerare tutti i cittadini allo stesso modo? Perché lo Stato manca nel suo dovere di tutelare le persone in quanto tali e si ferma sulla forma invece che puntare alla sostanza?
Eppure lo abbiamo stabilito nella nostra Costituzione, all’articolo 3, che dice tutto in poche righe.
L’Olanda non è migliore di noi, è discriminante in altre aree sociali. Penso ai rifugiati e ai migranti, che qui vengono respinti o maltrattati dalle Istituzioni in infiniti modi; penso alle scuole speciali per bambini con disabilità, mentre in Italia abbiamo ragionato sul sostegno alla disabilità senza segregarla. E sono solo due esempi.
E poi ripenso all’Italia: che i migranti li soccorre, ma poi nel migliore dei casi li lascia a sé stessi; che ha una figura eccezionale come quella dell’insegnante di sostegno, ma poi non la gestisce e lascia le famiglie e le scuole sole nelle difficoltà.
L’Olanda è un paese estremamente razionale, dove l’iniziativa è pubblica e la mano dello Stato è forte. L’Italia è un paese senza testa, dove l’iniziativa è lasciata al buonsenso e spesso al buon cuore dei privati cittadini, con scarsissima gestione da parte dello Stato.

Possibile che non si possa fare di meglio? Possibile che non si possa trovare un equilibrio tra le due capacità di includere e di gestire? Possibile che non si possa prendere spunto a fare di meglio gli uni dagli altri?
Non è questo il senso dell’Unione Europea?

Foto: LETTERA dall'OLANDA
La nostra nuova amica GIULIA MONTANELLI ci scrive dall'Olanda, dove vive e da dove osserva l'Italia. Qui ci racconta del significato che si attribuisce alla parola FAMIGLIA in Olanda:vi chiedo di leggerlo e di riflettere insieme. Giulia vive in un Paese estremamente aperto rispettoso dei diritti.

Ho osservato con stupore e indignazione le manifestazioni dello scorso fine settimana che hanno visto protagoniste le sentinelle in piedi, gruppi di persone che si riuniscono nelle piazze italiane e restano in piedi per ore, intente nella lettura di un libro, allo scopo di esprimere dissenso nei confronti della legge contro l'’omofobia: manifestazioni volte quindi non a chiedere un diritto, ma a chiedere che un diritto NON possa essere esteso ad altri. Ho provato invece un certo senso di conforto nel vedere le manifestazioni organizzate in risposta, immediatamente azzerato nell’ascoltare le direttive date ai Prefetti dal ministro Alfano, che dispongono di non registrare più unioni omosessuali avvenute all’estero e di cancellare d’ufficio quelle già registrate.

Sicché ho pensato all’assurdità della situazione paragonandola a quella olandese, che vorrei raccontare.
In Olanda non esiste solo il matrimonio quale forma giuridica della famiglia e quando si dice “famiglia” si allarga la visuale.

La legge olandese prevede che le relazioni familiari e le unioni stabili possano essere regolate in più modi. Sono permessi e regolati il matrimonio, l'unione registrata, il contratto di coabitazione e l’unione di fatto.

Innanzi tutto matrimonio, unione registrata e contratto di coabitazione hanno in comune alcune caratteristiche: sono consentiti solo tra maggiorenni (18 anni), ad eccezione di casi particolari; non è rilevante il genere o l'orientamento sessuale dei partner; i presupposti o gli accordi alla base del rapporto non devono essere in conflitto con la legge. Differiscono però in alcuni punti chiave, che descrivo di seguito.

Il matrimonio e l'unione registrata hanno un rilievo all’interno del diritto di famiglia e sono molto simili. Hanno lo stesso valore giuridico e presuppongono sempre un rapporto di coppia non solo caratterizzato dal mutuo sostegno tra i partner, ma anche da un loro legame affettivo-sessuale.
Sono ammessi matrimoni e unioni registrate tra persone dello stesso genere e l’unica vera differenza riguarda il loro scioglimento: il matrimonio richiede tempi più lunghi per il divorzio (e comunque molto brevi se paragonati a quelli italiani: da pochi giorni in assenza di figli a qualche mese in presenza di figli), mentre l’unione registrata di scioglie istantaneamente con una firma, sempre ammesso che non ci siano figli: in questo caso matrimonio e unione registrata sono praticamente sovrapponibili.
Famiglia ai fini del diritto è quindi fatta da persone che condividono affetto e intimità, a prescindere dal genere e dalla procreazione: sono infatti ammesse adozioni da parte di single e di coppie omosessuali e la PMA è accessibile a tutti. Valgono inoltre delle regole generali: non si può essere sposati o registrati con più di una persona per volta; chi è sposato non può registrarsi e chi è registrato non può sposarsi; non sono permessi matrimonio e registrazione tra chi ha legami di sangue stretti: tra genitori e figli, nonni e nipoti e tra fratelli e sorelle, con alcune eccezioni nei casi di adozione.
Preciso che l’unione registrata è nata per rispondere alla richiesta delle famiglie LGBT di avere una forma giuridica. Da quando, nel 2001, il matrimonio ha smesso di avere un genere, l’unione registrata ha perso di fatto la ragione per cui è nata, ma resta possibile.

Ma proprio per alcune di queste limitazioni, appariva riduttivo fermarsi lì. Perché un nucleo familiare può essere anche allargato, non necessariamente è fatto di coppie che condividono la loro intimità, ma anche solo da persone che vivono tra loro e si vogliono bene, magari perché condividono un legame di parentela o semplicemente di amicizia.
Nella mia famiglia hanno vissuto insieme per 30 anni un’anziana zia e uno dei suoi nipoti. Lei è rimasta vedova e lui non si è mai sposato, e per tante ragioni si sono trovati a vivere insieme. Hanno vissuto nella stessa casa per anni, dandosi reciproco aiuto e conforto. Alla morte di lei, l’unica cosa che ha potuto fare per questo nipote amato come un figlio è stato lasciargli in eredità la piccola casa in cui abitavano insieme, ma lui ne è rimasto terribilmente impoverito: insieme vivevano con due piccole pensioni, ma alla morte di lei lui non ha potuto avere nulla. Eppure erano una famiglia anche loro: non in senso giuridico, ma certo in senso affettivo.
Per tutelare queste persone, che restano escluse dal matrimonio e dalla registrazione dell’unione, è comparso lo strumento del contratto di convivenza.

Il contratto di convivenza non ha rilievo per il diritto di famiglia (se persone che hanno un contratto di questo tipo dovessero avere figli, ricadrebbero automaticamente nelle prescrizioni di legge del caso, perché i diritti dei figli esulano dagli accordi tra i genitori) e può essere assimilato ad un contratto privato di mutuo aiuto, al quale si possono ricollegare alcuni effetti di natura pubblica. Attraverso questo contratto le persone coabitanti possono stabilire di dividere i costi di mantenimento della casa e di supportarsi a vicenda economicamente; possono stabilire regole per la gestione dei propri conti correnti, dei propri guadagni e beni. L'accordo può essere redatto con scrittura privata oppure da un notaio con atto pubblico. In genere si utilizza la forma dell’atto pubblico perché è necessaria per gli effetti di natura pubblica: per poter avere dei diritti sulla pensione del partner; per i riconoscimenti che le aziende prevedono per i dipendenti che vivono una relazione di tipo familiare; per il riconoscimento della convivenza ai fini fiscali.

Infine, nel caso di unioni stabili non formalizzate in alcun modo (unioni di fatto nelle quali la stabilità è definita dal semplice passare del tempo), esiste comunque la possibilità che si determinino conseguenze giuridiche direttamente previste dalla legge nel campo della tassazione e della sicurezza sociale.

Alla luce di questo, mi domando: ma perché in Italia non riusciamo a considerare tutti i cittadini allo stesso modo? Perché lo Stato manca nel suo dovere di tutelare le persone in quanto tali e si ferma sulla forma invece che puntare alla sostanza?
Eppure lo abbiamo stabilito nella nostra Costituzione, all’articolo 3, che dice tutto in poche righe.
L’Olanda non è migliore di noi, è discriminante in altre aree sociali. Penso ai rifugiati e ai migranti, che qui vengono respinti o maltrattati dalle Istituzioni in infiniti modi; penso alle scuole speciali per bambini con disabilità, mentre in Italia abbiamo ragionato sul sostegno alla disabilità senza segregarla. E sono solo due esempi.
E poi ripenso all’Italia: che i migranti li soccorre, ma poi nel migliore dei casi li lascia a sé stessi; che ha una figura eccezionale come quella dell’insegnante di sostegno, ma poi non la gestisce e lascia le famiglie e le scuole sole nelle difficoltà.
L’Olanda è un paese estremamente razionale, dove l’iniziativa è pubblica e la mano dello Stato è forte. L’Italia è un paese senza testa, dove l’iniziativa è lasciata al buonsenso e spesso al buon cuore dei privati cittadini, con scarsissima gestione da parte dello Stato.

Possibile che non si possa fare di meglio? Possibile che non si possa trovare un equilibrio tra le due capacità di includere e di gestire? Possibile che non si possa prendere spunto a fare di meglio gli uni dagli altri?
Non è questo il senso dell’Unione Europea?