Ieri ho pubblicato un breve post dal titolo Le Nostre Mestruazioni sulla nostra pagina fb. Ne è sortito un dibatitto ricchissimo, di quelli che mi  persuadono che, nonostante tutto appaia ostile per noi donne, il cambiamento è invece potentemente in corso. Come l’acqua è in grado di abbattere muri che parevano solidissimi, così la forza delle donne si sta esprimendo in luoghi e modalità a cui è bene prestare ascolto.
Alcuni commenti che leggerete paiono ostili: io li vedo come la manifestazione di una lotta, quella tra ragione e natura, che non ha motivo di esistere: ora è importante tenere insieme, cucire, unire.
Spesso siamo tenacemente ancorate ad una razionalità che pare darci sicurezza. Talvolta i commenti che ne scaturiscono sono duri, giudicanti, sprezzanti. Peccato. Perchè l’ascolto delle altre resta a mio avviso l’unico modo per progredire. Una laurea un Master non si negano quasi a nessuno  ma un processo di consapevolezza della vita è frutto di un lungo percorso che richiede umiltà e fatica.
La maggioranza delle donne che ricoprono posizioni di potere oggi, adottano modi e tempi del maschile. E così facendo il mondo si impoverisce.  Non giudico, l’ho vissuto e dunque ne  ho estrema comprensione. Ma è un altro il femminile che andiamo cercando e di cui c’è bisogno.
Che paura del giudizio degli uomini, ragazze! Che paura ancora che abbiamo!
“Essere Due” e non uno e la sua brutta copia.
Il modello maschile può essere interessante. Ma oggi è tempo di  formulare il nostro.
Coraggio!
Anni fa scrissi il discorso che trovate qui sotto per un congresso mondiale di donne che si teneva a Oslo. Ebbe grande eco. L’ho trascritto nella ultima parte del libro “Il Corpo delle Donne”, la ritengo la parte più importante.

Il Discorso di Oslo

“Edward Whitmont, il più celebre tra gli allievi di Jung,
ha scritto: “Essere autentici costituisce probabilmente il più
fondamentale dei diritti dell’uomo. Ma la conquista dell’autenticità
richiede che si renda omaggio ai propri desideri e
bisogni emotivi. Il bisogno è l’impulso fondamentale verso
una soddisfazione biologica, emotiva e spirituale. Questa
soddisfazione opera nell’interesse della sopravvivenza, dell’identità
individuale e dell’autoaffermazione”. Possiamo rinnegare
ciò che facciamo o ciò che abbiamo fatto, ma non ciò
che siamo o ciò che profondamente vogliamo.
Alla ricerca della mia autenticità, ho realizzato che il
mio curriculum non è sufficiente per rappresentare la mia
vita. Per la prima volta ho capito che, se volevo mettermi
realmente alla ricerca della mia autenticità, dovevo accettare
di perdere le mie certezze.
Il dubbio è diventato il mio amico più caro. Dovevo accettare
di non sapere… Alla ricerca della mia autenticità,
sono diventata consapevole che il mio corpo è importante
almeno quanto la mia mente, spesso così ingombrante. E
ho sentito profondamente di avere anche un’anima, che sapeva
essere molto più vicina di quanto pensassi alle domande
importanti della vita.
Il bisogno è la spinta fondamentale verso una profonda
soddisfazione biologica, emotiva e spirituale…
Secondo la mia esperienza personale, il vero problema
per noi donne è che da un certo momento in poi non siamo
più state in grado di identificare i nostri bisogni. Le ragioni
sono molte e profonde. Ciò nonostante, sappiamo per
certo che abbiamo seguito il modello maschile prevalente
e a esso ci siamo adeguate, senza considerare se fosse giusto
o meno. Ma noi non siamo uomini.
In un mondo dove “se non lavori non esisti”, intendendo
il lavorare come ricerca di senso, oltre che di retribuzione,
l’unica scelta per noi donne è stata quella di lavorare
come uomini. Un lavoro spesso basato sulla produzione
di merci e non di valore. E attraverso la condivisione della
produzione abbiamo scelto di esistere.
Una volta entrate nel mondo del lavoro ne abbiamo accettato
le logiche e i metodi, sebbene non fossimo state noi
a concepirli. La gestione del tempo, delle riunioni e delle
persone, il modo con cui ci proponevamo di raggiungere
gli obiettivi, i mansionari e le schede di valutazione erano
stati concepiti per gli uomini: ciò nonostante li abbiamo
fatti nostri.
Ne conosciamo le conseguenze? Forse, ma non completamente.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a importanti
cambiamenti nel mondo del lavoro: abbiamo cominciato
a discutere dei nostri problemi. Per riuscire ad attrarre
più donne all’interno del management, molte multinazionali
hanno sviluppato politiche interessanti sulla
flessibilità degli orari, che avrebbe dovuto mettere le donne
in condizioni di avere e crescere dei figli. Ciò nonostante,
il problema non è stato risolto. Moltissime donne
sentono la profonda ferita che divide la loro vita privata da
quella professionale.
Essere entrate nel mondo del lavoro ci ha dato effettivamente
la possibilità di percepire il nostro valore non solo
dentro casa ma anche fuori, affrontando così contesti
nuovi. Eppure, molto lavoro domestico dipende ancora totalmente
dalle donne. Alcune di noi hanno la possibilità di
delegarlo ad altre donne, ma la responsabilità di organizzarlo
all’interno della casa resta spesso di nostra totale competenza.
Il compito più difficile continua a essere mettere insie
me le parti. Quante volte abbiamo voluto credere che si trattava
solo di diventare abili organizzatrici e riuscire così a
gestire tutto, e quante volte ci siamo sbagliate! La qualità è
veramente sempre preferibile alla quantità? Diventa sempre
più difficile avere tempo per i figli, intendendo con ciò
tempo reale per metterli al mondo e crescerli. E ancora più
difficile diventa trovare il tempo per gestire la casa, la famiglia
e tutte le attività legate all’accudimento, quelle attività
di cui sono da sempre responsabili le donne: prendersi
cura dei genitori anziani, dei malati, e della morte che a
volte irrompe nelle nostre vite.
“Cosas de la vida,” dicono in Sudamerica. Nascite, bambini,
malattie, accudimento degli anziani, amori, relazioni:
sono tutte cose della vita.
Se ci riflettiamo con attenzione, le cose della vita sono
anche “cose di donne”. Non è interessante? Da un certo punto
in poi della mia vita, ho sentito chiaramente che volevo
occuparmi di più di queste cose, volevo che mi avvolgessero.
Non si trattava più di trovare mezz’ora per far fare i compiti
a mio figlio. Volevo di più.
Questo è il problema, credo: vogliamo di più!
Volere di più può significare scegliere di esistere non solo
attraverso il lavoro.
Iniziare a realizzare che ciò che il mondo considera “di
successo” forse non lo è necessariamente anche per noi. Significa
iniziare a chiedersi:
cosa è importante per me?
Cosa conta nella vita?
Cosa significa essere capaci di costruirsi una carriera
“sostenibile”?
Molti anni fa mi sono presa un periodo sabbatico. Lavoravo
come dirigente in una grande azienda e non sapevo più
cosa volessi.
Non ero più in grado di riconoscere i miei bisogni. Sapevo
solo di essere stanca: mi sentivo sfinita. Era un malessere
indicibile a cui non avrei saputo dare un nome. Anche
adesso mi è difficile spiegarlo: all’esterno apparivo come
una donna in carriera e di successo. Il mio malessere
era la mia sola consapevolezza.
Una mattina, sotto la doccia, ho sentito un nodulo al
seno. Nessun pericolo reale: ecografia, ago aspirato, la
prassi usuale. Nulla di preoccupante, ha detto il chirurgo,
cose che succedono, senza un particolare significato. Io
invece sentivo che il mio corpo mi stava dicendo qualcosa.
Pensavo alle molte amiche entrate in menopausa prima
dei quarant’anni: anche a loro i medici avevano detto
“cose che succedono”. Le donne non ne parlano volentieri.
Sembra che l’immagine di una donna di successo non
preveda la malattia, spesso considerata alla stregua di una
colpa. Ho cominciato da lì, dal sentire che nel mio corpo
si era inceppato qualcosa. Non avevo nessun’altra consapevolezza.
Ho iniziato allora, in principio quasi brancolando nel
buio, a frequentare tutti i corsi che potevano mettermi a
contatto con il mio corpo: yoga, recitazione, canto, ballo.
Provavo dapprima con timore, poi via via con maggior consapevolezza.
Andavo alla ricerca della via che mi avrebbe
avvicinata al mio corpo.
Da questa ricerca è scaturita un’energia che non pensavo
di avere.
Mi sentivo come l’acqua di un torrente impetuoso. Per
la prima volta volevo vivere pienamente e completamente,
anziché passare la vita a raggiungere obiettivi che non mi
corrispondevano più.
Mi lasciavo portare dalla corrente, come una foglia dal
vento. Per la prima volta ho sentito che stavo accettando di
esistere totalmente e completamente, invece di inseguire
mete che in verità non condividevo.
Per anni ho nascosto la mia essenza più profonda sotto
strati di abitudini maschili perdendo ogni traccia del mio
essere femminile. Mi riconosco un solo merito: essere stata
capace di ascoltarmi prima che fosse troppo tardi, e aver
mantenuto un filo, a volte quasi invisibile, con quella che
io ritengo essere la mia verità.
Mettersi alla ricerca della propria verità. Accettare di
non sapere; avendo fiducia che nuove consapevolezze emergeranno
durante il viaggio; senza preoccuparsi di sapere
tutto e convincendoci che i dubbi possono essere utili. Concedersi,
finalmente, la libertà di dire: “Non so, ci devo pensare.
Mi prendo il mio tempo”.
Non ho ricette, né penso che ne esistano. La ricerca ossessiva
di manuali che ci insegnano come vivere spesso
nasconde la paura di dover comprendere che la strada ver-
so la conoscenza di noi stessi è lunga, ma soprattutto personale.
La prima cosa da fare per divenire autentiche è probabilmente
imparare ad ascoltarci. La nostra verità, la nostra
vera voce, è spesso nascosta ed è necessario il silenzio perché
il nuovo e il vero emergano. Solo così i nostri bisogni
più profondi potranno essere uditi.
Il bisogno, lo abbiamo detto, rappresenta il nostro impulso
fondamentale verso la soddisfazione biologica, emotiva
e spirituale. La soddisfazione di queste necessità garantisce
la sopravvivenza della nostra identità.
Uno dei passi più importanti nella vita è saper riconoscere
i propri bisogni più profondi. Ma quali erano i miei
bisogni?
Credo che questo sia il problema maggiore per noi donne:
non sappiamo cosa vogliamo. Ci siamo allontanate troppo
da noi stesse e ora è difficile trovare la strada che ci condurrà
a casa.
Abbiamo introiettato il modello maschile così a lungo,
e così profondamente, che non siamo più in grado di riconoscere
cosa vogliamo veramente e cosa ci rende felici.
Cosa mi rende felice?
Il mio lavoro mi permette davvero di esprimermi?
Chi sono?
Sappiamo riconoscere i nostri doveri più sacri?
Queste sono domande semplici che dovremmo porci
sempre, o cominciare a porci.
Pensiamo per un attimo all’idea attuale di bellezza: siamo
certe di identificarci con questo modello? Molte donne
risponderebbero di no.
L’immagine femminile nei media è molto lontana dalla
realtà. Troppo magre, troppo giovani, spesso con sguardi
sofferenti: è strano e allo stesso tempo preoccupante che la
pubblicità utilizzi questo tipo di donna per attrarre pubblico
femminile. Perché compriamo un certo tipo di crema
o un certo vestito? Ci piacciono veramente le modelle della
pubblicità? E siamo sicure di essere contente, ora che
molte di noi sono diventate quasi uomini e come tali si comportano?
Siamo certe di voler passare la nostra vita, le nostre gior-
nate, in uffici con luce artificiale e aria condizionata fino
alle nove di sera? Di partecipare a riunioni spesso stancanti
e senza senso?
Le cose della vita ci stanno chiamando, sono là fuori e
premono per entrare nelle nostre giornate.
Da tempo ho rifiutato la ferita che tutte noi, consciamente
o inconsciamente, nascondiamo.
E questa ferita si forma attraverso il nostro essere eternamente
divise in due. Quando siamo al lavoro, pensiamo
ai bambini a casa. E mentre ci occupiamo di organizzazione
domestica, pensiamo alle cose da fare in ufficio. Per
di più, non possiamo dimenticare il nostro orologio biologico…
quand’è il momento più giusto per fare figli? Ce la
faremo a dividerci tra una carriera che ci regala la sensazione
di “esistere” e una maternità che spesso appare come
un’esperienza oscura, a tratti spaventevole?
Anni trascorsi così: mai completamente concentrate sul
lavoro, come possono fare gli uomini, mai completamente
con la propria famiglia, come fanno solitamente le madri.
Imparavo ad affrontare una grande frustrazione perché
il mio “prodotto finale” mi pareva fosse sempre migliorabile:
“Se solo non avessi i bambini a cui pensare, avrei scritto
meglio questo documento!”. E poi: “Non sarebbe meglio
per tutti se avessi più tempo da dedicare a mio figlio, anziché
stare sino a tardi in ufficio?”.
Non ero mai soddisfatta di me stessa.
Lungo il cammino verso la conoscenza di sé, quando finalmente
ho cominciato ad accettarmi e a riconoscere la
mia essenza più profonda, ho cominciato anche a identificare
le cose importanti per me.
E la ferita ha iniziato a rimarginarsi, miracolosamente.
Non era più tempo di “o questo, o quello”: bambini o lavoro,
corpo o mente, amore o carriera.
Piuttosto, la vita poteva unire, tenere insieme.
Volevo unire la ragione con il mio bisogno di vita.
Unire la mente con il richiamo potente della natura.
Unire, o meglio ri-unire, annullare la separazione che
ci spinge alla nostra personalissima ricerca di senso: il significato
del nostro essere su questa terra.
Unire.
Sciogliere l’ultimo nodo che impedisce la nostra libertà.
Mettere finalmente a frutto tutto quanto abbiamo impa-
rato durante gli anni e ciò che siamo diventate: la bellezza
dell’universo, la maternità, un lavoro, l’amore, gli studi
letterari, lo yoga, la passione. Tutte esperienze che mi appartengono
e che hanno influenzato la mia vita. La ferita
è stata sostituita da un cammino verso l’autenticità, che
implica fermare la lotta e cominciare a mettere insieme le
parti.
La scorsa estate ho passato le vacanze con i miei figli,
Alessandro ed Eleonora. Mentre scrivevo, mi interrompevano
spesso. Il disappunto che nasceva dall’essere distolta
dal lavoro veniva lentamente rimpiazzato dalla meraviglia
che la loro stessa esistenza mi suscitava. Non volevo più
chiudere la porta ai sensi e alle emozioni. Li osservavo. Il
mio lavoro avrebbe subìto un ritardo. I miei sentimenti
avrebbero influenzato il mio lavoro. Univo, tenevo insieme
le parti.
E nell’unire, scoprivo anche le fasi del mio corpo. Le ho
scoperte durante la gravidanza. Fino a quel momento, mi
ero identificata solo con la mia testa.
Ora amo il mio corpo, mi racconta molto di me e ho imparato
ad ascoltarlo.
Lo yoga mi ha indicato la via dell’unione.
Il ballo mi ha regalato una dimensione erotica della vita.
Unisco, tengo insieme.
Mi impegno a unire, anziché a separare.
È importante iniziare a occuparsi delle cose che realmente
contano. Noi donne siamo sempre state presenti
quando si tratta di occuparsi delle cose della vita, delle cose
che contano. Dando la vita, curando gli ammalati e seguendoli
sino alla morte. È tempo per noi di crescere e di
accettare le nostre responsabilità. Tempo di riconoscere chi
siamo e le nostre potenzialità. Tempo di onorare i nostri
doveri.
È tempo di vivere le nostre vite meglio e più pienamente.
Siamo pronte, ora, per un salto qualitativo.
Scegliamo di dare vita a un Nuovo mondo.
Per farlo, dobbiamo trovare il coraggio di nominare il
mondo al femminile.
Trovare il coraggio di metterci alla prova.
La capacità di nominare il mondo al femminile coinci-
de con l’arte personalissima di ciascuna donna di dire e
creare la propria vita in modo unico e nuovo.
È un cammino lungo e difficile.
Come dicevamo, comincia con il riconoscere chi siamo
e cosa vogliamo veramente.
Cosa conta per noi e qual è il nostro ruolo nel mondo.
Continua con l’insegnare al mondo chi siamo e quali sono
le nostre potenzialità.
Trasformiamoci: dall’“essere” perché sappiamo lavorare
come uomini, a un “essere” che si forma proponendo un
modo nuovo e complementare a ciò che già esiste.
Così da poter essere realmente Due, anziché Uno e la
sua brutta copia.
Avviamoci verso la nostra vera casa e andiamo incontro
a noi stesse.
Forse si può accettare di stare in bilico, può anche essere
un’esperienza interessante. Forse non è necessario essere
sempre certe. Qualche volta l’incertezza, la consapevolezza
di essere sospesi, può essere foriera di sorprese inimmaginabili.
È tempo di dare spazio ai sentimenti, ai sensi e allo spirito.
Forse può essere nostra precisa responsabilità essere un
esempio vivente di come il bisogno di ragione e l’espressione
della vita possano coesistere.
Forse potremmo iniziare diventando vulnerabili.
Io voglio essere vulnerabile. Sono stanca di essere e apparire
invulnerabile.
La vulnerabilità è bella, mostra i nostri sentimenti più
profondi, mostra i moti della nostra anima.
Il nostro volto visto come fenomeno archetipico reca un
messaggio: vulnerabilità assoluta. Il volto è l’espressione
della nostra autenticità.
Mostrando il nostro vero volto, smettendo di nasconderci,
iniziamo a cambiare il mondo.
Diventiamo testimoni viventi della vita che è fatta da ragione
e vita, razionalità ed emozione. E spiritualità.
“Se non lavori non esisti.”
“Ma questa equazione non considera che dietro a tutte le
attività produttive c’è un essere umano che sta lavorando.”
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Forse c’è un altro modo per uscirne. Ripensare l’idea di
lavoro cominciando da una semplice domanda: gli obiettivi
dell’economia sono anche i nostri?
È evidente che il problema del lavoro non può riguardare
solo l’economia. La produzione senza fine di merci
non può dare un senso alla nostra vita.
Più di un miliardo di persone non hanno accesso all’acqua
potabile.
850 milioni sono sottonutrite.
7 milioni di ettari di foresta vengono distrutti ogni anno.
L’1 per cento della popolazione mondiale detiene il 40
per cento della ricchezza mondiale.
Unire ragione e vita per dare un nuovo senso alla nostra
vita.
Quante volte abbiamo visto questi dati?
Ma come li abbiamo guardati?
Usando la ragione. Cosa accadrebbe se li guardassimo
utilizzando la ragione e il profondo bisogno di rispettare e
onorare la vita?
“Mettiamo al mondo il mondo.”
Recuperiamo la nostra saggezza profonda: noi donne
sappiamo che il cambiamento del mondo può partire dal
nostro personale cambiamento.
“Le donne dovrebbero essere responsabili dello sviluppo
sostenibile della terra, dedicandosi al nobile scopo di costruire
le nazioni,” dice Pratibha Patil, primo presidente
donna della Repubblica indiana.
Se vogliamo salvare la natura fuori di noi, dobbiamo
iniziare con il salvare la natura dentro di noi.
Portiamo a conoscenza degli altri cosa significhi essere
una donna.
Mostriamolo al mondo.
Sostituiamo il dover fare con l’essere.
Proponiamo come modello di forza il giunco, che durante
la tempesta non si spezza, come invece fa la quercia.
Accettiamo che i tempi delle donne sono diversi da quelli
degli uomini.
Accettiamo che il progetto di un nuovo modo di concepire
la vita richiede tempo, condizioni propizie, calma, silenzio
e un ambiente protetto.
Solo così saremo in grado di dare il benvenuto al mondo.