Ricevo e pubblico. Di lettere così, di donne e uomini che leggono e stanno ricominciando da sé stessi, ne arrivano molte in questo periodo.

Questo è un Post semplice e chiaro.

– È un Post scritto tutto di un fiato, perché quello che ho da dire mi viene da dentro, non ci devo stare a girare troppo intorno.

– È un post determinato dalle mie ultime esperienze di vita.

– È un Post dedicato anche a Bacche Rosse, perché mi è spiaciuta la sua sfuriata, anche se ne capisco il senso. E spero davvero che mi legga.

– È un Post di incoraggiamento, di forza per tutt* voi che state in Italia.

– Ma, soprattutto, è un Post che richiede una premessa ed un ricordo, quello di mia zia Rosa, una figura che ho sempre amato e “compatito” (dal greco antico “soffrire insieme”), pur non avendola mai conosciuta.

Una figura, per me bambina, “mitica”. Una donna povera, che lascia la Sicilia negli anni ’20, senza un soldo in tasca. Appena sposata.

Costretta dall’indigenza ad abbandonare i genitori (che non rivedrà mai più in vita), i fratelli, il paesello: tutto, per andare incontro alla sorte e alla speranza di una vita migliore.

Si imbarca su un bastimento e arriva a New York. Senza sapere neanche l’italiano (figuriamoci l’inglese). Rimane per giorni ad Ellis Island (sapete, no, che i migranti venivano messi in quarantena), poi comincia la sua dura avventura americana.

Tornerà solo una volta in Italia, negli anni ’50 (dunque 30 anni dopo essersene andata).

E non c’era nemmeno il telefono allora. Altro che Internet, Skype e compagnia cantando. Almeno gli immigrati di oggi, anche i più disgraziati, hanno a loro disposizione gli “Internet point”.  In qualche modo riescono a comunicare con i loro cari.

Anticamente (meno di un secolo fa), invece, emigrare significava ricominciare una vita lontano da tutto. Il passato quasi cancellato. Le radici quasi recise. Per sempre.

L’idea delle sofferenze sopportate da questa donna (e dai milioni di Italiani che in quegli anni lasciarono l’Italia) mi hanno sempre tormentato.

Fatta dunque questa necessaria premessa, relativa alle dovute distinzioni fra noi europei  moderni,“espatriati” per scelta, con la durezza della vita dell’emigrante europeo di un tempo (che però è la stessa durezza e le stesse umiliazioni cui viene sottoposto, ancora oggi, chi attraversa il Mediterraneo su una carretta del mare e arriva clandestino a Lampedusa o alle Canarie) vi racconto qualcosa di me,  semplicemente per infondervi un briciolo di determinazione e un poco di speranza.

Vivo da 13 anni in Spagna. Da allora qui è capitato di tutto.Ho visto Barcellona cambiare profondamente.

Quando sono arrivata qui di italiani quasi non ce n’erano, … Poi ne sono arrivati tantissimi. E molti anche facendo i “martiri”, ossia quelli che avevano scelto l’esilio dall’Italia di Berlusconi (e ripensavo  sempre a mia zia Rosa…)

E sono arrivati anche tanti manipolatori, tanti adulatori che osannavano la Spagna come la grande nazione moderna. Italiani disposti a sputare sul nostro Paese, per costruirsi una certa visibilità “mediatica” speculando sulla nostra presunta arretratezza.

Ho visto, in chi così agiva, stupidità o malafede.

– Stupidità nel migliore dei casi (non essere in grado di vedere come stessero realmente le cose: la Spagna NON si può definire un paese moderno, più avanti dell’Italia, solo perché i gay qui si possono sposare. Ci sono un’infinità di cose che denunciano il permanere di una evidente arretratezza culturale e sociale – anche persino fra i tanto sbandierati “diritti” sociali).

– Malafede nel peggiore: tanto parlar male, spesso gratuitamente, del nostro Paese, nascondendo artatamente la realtà, presentando solo ciò che più faceva gioco, perché questo chiedevano i media spagnoli: semplificazione, in barba all’onestà intellettuale.

 

Comunque, la maggioranza di chi è arrivato qua dall’Italia, non è che ne abbia guadagnato un granché. Con una laurea (spesso breve) in tasca,  in molti si lamentavano di non essere sufficientemente considerati in patria, di non poterci trovare opportunità degne del loro “status”, ma poi qui hanno finito con l’accettare di fare (e sono ancora in tantissimi) lavori poco qualificati che a casa, forse, non avrebbero mai fatto (i call-center internazionali, qui a Barcellona, sono ancora una importante realtà e poi tantissimi nostri connazionali lavorano come camerieri, dato che il settore alberghiero e della ristorazione è quello che in questa città è sempre stato trainante e continua ad essere in attivo). E tutte le balle (scusate il termine) di Fabio Volo, Riccardo Jacona & C sulle opportunità e le fantasmagorie locali sono solo servite a far sì che sempre più allodole venissero attirate da questo specchietto di città, disneyficata ad hoc per adulti giovani e meno giovani, questo grande luna-park, che si chiama Barcellona.

In questa città (dove in generale, se si osserva senza pregiudizi resulta evidente che coloro che “vanno avanti” sono comunque i raccomandati – los “enchufados”, come si dice in spagnolo – i rampolli della buona borghesia locale  che, anche se scemi, un posto al sole lo troveranno sempre) io quel poco che sono riuscita a fare l’ho sempre fatto comunque tutto da sola (voglio dire senza raccomandazioni locali né senza intrallazzamenti). E anche adesso, dopo essermi dovuta scontrare con una legge che, in materia di diritto di famiglia NON è affatto più avanzata della nostra, anzi esattamente il contrario (matrimoni gay permettendo), dopo essermela dovuta cavare assolutamente da sola, in una città e in un paese che non sono i miei (questo lo dico per ricordare quali e quanti sono i costi emotivi dell’espatrio. Ripeto: non è una lamentatio, siamo pur sempre degli “emigranti di lusso” rispetto a mia zia Rosa o rispetto ai “clandestinos” contemporanei, ma delle difficoltà in più si incontrano vivendo in un paese straniero, fuori dalla rete di protezione rappresentata da famiglia/circolo di amici) vorrei solo dirvi un paio di cose.

 Di non scoraggiarvi e di non arrendervi mai, né a casa né fuori. Che, se malgrado tutto, io ce l’ho fatta – e ce la farò ancora meglio – ce la potete fare tutti. Ma questo lo devo al mio Paese anche se, nel concreto, le Istituzioni di questo mio adorato bel paese non mi hanno mai aiutato né sostenuto, né qui né in Italia.

Assodata e denunciata questa realtà (che è rimasta invariata con governi di destra e di sinistra, con B. e con Prodi, non è mai cambiato nulla: i nostri Istituti di Cultura hanno continuato ad essere gestiti nello stesso modo piuttosto inutile dilapidando denaro pubblico, così come i Consolati, così come le nostre scuole, all’estero i cui professori in trasferta prendono stipendi da favola ma nessuno lo dice – forse CGIL è occupata in qualcos’altro e la CGIL Funzione pubblica, si sa, è una potenza) ho capito che basta: era inutile rivendicare un riconoscimento delle mie qualità da parte di questi signori, sperare in un’opportunità, in un trattamento migliore o in un qualche atto di giustizia; l’unica alternativa era quella di fare da sé.

Di ripartire da sé. Di non cercare un lavoro da dipendente. Di inventarselo, puntando proprio sull’eccellenza italiana, perché siamo bravi, creativi e professionali. E dobbiamo credere nelle nostre capacità. Non sempre e solo auto-distruggerci..

Questo non vuol dire smettere di vigilare e di denunciare le ingiustizie sociali. Ma nel frattempo si deve cercare di fare! Infatti è sbagliato sperare che un qualsiasi tipo di aiuto ci arrivi dei lottizzatori di posti pubblici e semi-pubblici. Sono troppo impegnati a “piazzare” chi fa parte della propia cerchia di parenti, amici, “clientes” etc.

Grazie a costoro il Paese finirà nel più totale declino. Dobbiamo contrastarli con atti incisivi e propositivi. Basta avvilirsi.

Oltre a tanti punti di debolezza noi italiani abbiamo anche tanti punti di forza. Il problema è che non li vediamo perché spesso vengono oscurati dai media. Tanto quegli stessi che raccontano dell’avvilimento del nostro Paese, un posto al caldo ce l’hanno. Anzi, è proprio di questi continui attacchi che, in fondo, vivono!

Non sputiamo solo sull’Italia e non facciamocela rubare. Cerchiamo di valorizzare in noi il meglio di quanto parte proprio della nostra profonda cultura.

Un abbraccio a tutt*
N.B.Su sollecitazione di Lorella Zanardo vi spiego molto brevemente cosa sto facendo adesso, perché capiate che con la professionalità, l’impegno, la costanza e valorizzando quello che di buono sappiamo fare, come italiani, possiamo andare avanti. davvero!Gestisco un locale a Barcellona. Un locale bellissimo, interamente progettato dalla mia socia, un’italiana geniale e con tanto buon gusto, come (quasi) solo noi sappiamo abbiamo. I complimenti e il riconoscimento di uno·”stile” inconfondibile ne sono prova. Non esiste niente di simile qui. E ce l’hanno detto anche tanti francesi, qui molto numerosi. Il nostro fornitore di pasta è anche lui italiano. Laureato in economia e anche con Master. Fa altro: il pastaro, ma sempre di eccellenza italiana si tratta. Così come la persona che ci porta le basi per le pizze.

La mia socia ha studiato Restauro a Firenze.

Io mi sono sempre mossa nel campo della ricerca e poi delle Lettere, ma sono felice di aver fatto questo passo, che mi consente di sfruttare tutte le competenze acquisite (e mai remunerativamente riconosciute) per qualcosa di mio.Mi occupo della comunicazione e della creazione di eventi per il locale, che si porpone come “ponte”, come snodo fra due culture.

I ragazzi che lavorano con noi sono tutti italiani. Perché anche per servire in tavola o stare in negozio ci vuole quel “savoir-faire” così tipico della nostra terra e difficile da trovare in altre nazionalità.

I cuochi sono italiani (ci mancherebbe).

Vendiamo quanto di meglio il nostro Paese è in grado di esprimere. Continua….”