I dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (INE) ci raccontano che, a fine 2012, siamo arrivati, qui in Spagna, al 26,02% di tasso di disoccupazione che, tradotto in cifre assolute, equivale a quasi 6.000.000 di disoccupati.

Nel gennaio del 2013 si sarebbero già persi, in Spagna, quasi 8.500 posti di lavoro al giorno.

Secondo l’inchiesta “popolazione attiva”, nell’ultimo trimestre 2012 125.500 spagnoli fra i 20 e i 35 anni avrebbero lasciato il paese, chi direttamente alla ricerca di lavoro all’estero, chi per migliorare la propria formazione, in mancanza di valide possibilità di impiego. Inoltre, nello stesso periodo, 87.000 stranieri, avrebbero ripreso la strada dell’emigrazione, abbandonando il suolo iberico.

Fermo restando che questi due dati non si devono sommare, perché in alcuni casi potrebbero sovrapporsi, si tratta pur sempre di numeri importanti.

Ancor più grave la situazione dei disoccupati di lungo corso, che sarebbero circa 3 milioni e mezzo di individui.

In pratica, come visualizza perfettamente il grafico, sono già 5 anni che in Spagna si assiste ad una progressiva perdita di occupazione, con buona pace di chi dipingeva questo paese, ancora – e soprattutto in quegli anni – come il “paradiso delle opportunità”.

Va anche messo in evidenza un altro dei problemi collegato a quello principale della disoccupazione: il tasso di disoccupazione giovanile che, fra i minori di 25 anni, è del 55%. Si tratta degli appartenenti a quella che è stata definita la “generación ni-ni”, che cioè né studia né lavora, esemplificazione dei difetti del sistema educativo ed economico locale – che non ha saputo trattenere questi giovani – attratti da un settore produttivo, l’edilizia, che offriva posti di lavoro poco qualificati e che è andato in crisi con la crisi dell’edilizia stessa e che adesso non è in grado di recuperarli per reinserirli in un programma di formazione scolastica credibile.

Male vanno le cose anche per il più ristretto collettivo sociale degli stranieri. In questo caso arriviamo ad un tasso di disoccupazione del 36,53%. Certamente questa percentuale elevata è dovuta al fatto che un gran numero di stranieri, soprattutto sudamericani, lavorassero anch’essi nell’edilizia. Ma questa non è l’unica spiegazione. Mantenere o trovare occupazione, per gli stranieri, è stato sempre più complicato che per gli spagnoli, a meno di non accettare quelli che vengono qualificati con le tre D (Dirty, Dangerous, Demanding Jobs), cioè i lavori più sporchi, più pericolosi e più faticosi, cui solitamente si dedicano i lavoratori extra-comunitari.
Ho sentore, poi, anche di rimpatri fra gli italiani e gli europei comunitari.

Del resto, la generosità finisce quando le risorse scarseggiano. Avendo raccolto le testimonianze di molti italiani (40 per l’esattezza) che risiedono e lavorano a Barcellona, so per certo che la maggioranza delle opportunità lavorative per i nostri connazionali si concentravano in multinazionali con team di lavoro internazionali, raramente in piccole o medie imprese catalane. Nonostante ciò, già dal 2009, ero venuta a conoscenza di “ristrutturazioni” in alcune multinazionali, le cui prime vittime erano proprio gli stranieri. È da tempo che l’emorragia di posti di lavoro è cominciata.

Riallacciandomi, quindi, a quanto scrive Lija, su una nuova generazione transeuropea, credo che ci sia del vero: a poco a poco sta venendo fuori una generazione di giovani di nazioni diverse che (o per scelta o per mancanza di alternative) si spostano incessantemente alla ricerca di qualcosa di meglio o di nuovo.

A questo proposito mi è saltato all’occhio un articolo pubblicato sul País del 24 gennaio di quest’anno, dal titolo “Le facce della disoccupazione”, di cui voglio parlarvi (e per chi voglia leggerlo per intero questo il link: http://economia.elpais.com/economia/2013/01/24/empleo/1359040144_562317.html).

Vi si raccontano 6 storie differenti, 6 casi esemplari di altrettante categorie di persone colpite, qui in Spagna, dal grave problema della disoccupazione o del lavoro precario o poco qualificato. C’è il disoccupato trentenne di lungo corso; la coppia di equadoregni – 33 anni ciascuno, entrambi senza lavoro, una figlia a carico – che non vuole tornare indietro “a mani vuote”(ricordate quanto vi dicevo a proposito della pressione sociale cui è sottoposto un migrante? Il senso del possibile fallimento aleggia incessantemente e lo induce a resistere anche a condizioni di fame); la giornalista 47enne appena licenziata in seguito alla ristrutturazione della Radio-Tv di Valencia; il regista 35enne di Madrid, free-lance (si traduce con precario) che si ostina a non darsi per vinto; la 42enne rumena che, dopo 12 anni trascorsi in Spagna, sta pensando di rimpatriare perché le possibilità di lavoro sono di molto diminuite e, infine, il 24enne spagnolo che ha lasciato il Paese in cerca di un riconoscimento dei propri meriti.

Ed è proprio su quest’ultima storia che vorrei soffermarmi, traducendovi il pezzo. Sono tante, tantissime le analogie con quanto si racconta sui nostri giovani espatriati.

Non credo si debbano mai fare facili generalizzazioni a partire da casi isolati, ma è davvero singolare che le motivazioni che hanno spinto Sergi Gómez ad espatriare abbiano tantissimi punti in comune con ciò che si è spesso discusso in questo Blog.

Lascio a voi i commenti.

 

Sergi Gómez, 24 anni, laureato in Turismo e Direzione d’Hotel presso l’Universitat Autònoma de Barcelona ha lavorato per anni come cameriere con contratti a termine, fino a quando si è stancato di non essere valorizzato per gli studi fatti. Questo accade durante un colloquio di lavoro in un hotel di Barcellona: “Dissi che, per il titolo di studio che avevo, nel futuro avrei voluto essere qualcosa di più che cameriere. Mi risposero che me lo potevo scordare”.

È così che decide di rifiutare quel lavoro e di andarsene all’estero. Non vuole più essere uno fra i tanti che contribuiscono a formare un dato odioso, quell’x,x% della disoccupazione giovanile. Per mezzo di una vecchia professoressa ottiene un colloquio all’Hotel Hilton London Metropole e da quel momento lavora lì: guadagna circa 1.000 sterline al mese e risparmia praticamente tutto, poiché l’impresa gli paga vitto e alloggio. Dopo cinque mesi lo proclamano “impiegato del mese”. Adesso gli hanno anche offerto un posto da supervisor in un hotel della stessa catena a Dubai, con future possibilità di crescita. “Tutto quello che non sono mai riuscito ad ottenere a Barcellona, dopo aver lavorato tantissimo per farmi posto”, commenta, “lo ottengo a Londra in solo cinque mesi”.

Voleva rientrare e stabilirsi a Barcellona, “dove ho la mia famiglia e la mia vita”, ma la capitale britannica gli offre l’opportunità di “dimostrare” il suo valore come professionista: “Questo in Spagna è impossibile”. All’estero invece, assicura, la concezione che si ha del lavoro è assai diversa: “Si valuta positivamente la gente con aspirazioni e con voglia di fare. Qui invece, dopo aver lavorato tantissime ore, sembra che ti stiano facendo un favore.

Naturalmente non è tutto rose e fiori. “Vivere fuori è durissimo, ma non posso sprecare la mia vita. Spagna equivale a stagnazione”. A Londra, continua, gli hanno dato “l’opportunità di imparare e di crescere” qualcosa che non è stato mai possibile nei vari lavori svolti in patria. “Per trovare un buon lavoro devi essere fantastico”: per questo spera di potersi stabilire a Barcellona dopo aver fatto esperienza professionale ed aver arricchito il suo curriculum all’estero, “come se fosse una sorta di investimento”.