Mi avete scritto in tante/i chiedendo com’è andata con SNOQ.  In breve: all’ennesimo episodio di violenza contro una ragazza, ho scritto un breve post e due righe a Cristina Comencini SNOQ chiedendo di condividere una riflessione su cosa fare e come eventualmente farlo, per fermare questo devastante femminicidio. C’è un grande fermento sul territorio, incontro ovunque vada donne e ragazze che formano associazioni, che si uniscono per combattere la misoginia italiana”colpo di coda del patriarcato”. C’è però una frammentazione di sforzi che pare dispersiva: molti obbiettivi potrebbero forse essere raggiunti più facilmente se si unissero le forze su obbiettivi specifici, continuando poi il proprio cammino autonomamente.

Con questo desiderio ho incontrato a Roma alcune rappresentanti di SNOQ tra le quali Cristina Comencini, Francesca Izzo e altre donne i cui commenti leggete qui di seguito. Prossimo appuntamento a Roma il 18 aprile.

Ecco i report:

Nella riunione abbiamo solo
iniziato a scambiarci delle idee. E’importante che la discussione si allarghi a tutte le donne,
ai comitati, ai centri antiviolenza, in rete. E’ venuta da tutte la convinzione che prima di una
possibile mobilitazione nazionale ma forse anche europea, dobbiamo andare in profondità
su un tema difficile e che è secondo noi da riproporre in un modo nuovo e forte. Pensiamo
inoltre di promuovere due incontri nazionali su rappresentazione delle donne e violenza,
da organizzare a Torino e a Bolzano in due date date che sono ancora da definire.
Cristina Comencini
Ragionare di violenza, di ragazze e donne ammazzate dai loro compagni (più di 30
dall’inizio dell’anno), sulla sopraffazione fisica anche quando non porta alla morte, sulla
cancellazione delle donne nel loro privato, nella società e nella cultura, ci sembra
fondamentale ma allo stesso tempo ci respinge. Il nuovo movimento delle donne è partito
dalla manifestazione di una forza femminile capace di cambiare il nostro Paese. Le donne
hanno detto che la dignità delle donne era la dignità dell’Italia, che senza le donne non si
governa più. Tornare a parlare di sopraffazione e di violenza sembra essere un passo
indietro come sostiene Alessandra Bocchetti : “Da questa posizione, non sempre bene
accettata dalle donne che mi ascoltano, capirete perché non ho mai accettato di parlare in
pubblico sulla violenza. Perché sempre mi sono accorta che mi si chiedeva un discorso
sulla colpa degli uomini e sull’innocenza delle donne, in definitiva mi si chiedeva una
grande cerimonia di autoconsolazione. Ma cosa volete che venga fuori da un
atteggiamento del genere? Credersi oggetto passivo di violenza non porta nessuna
conoscenza, perché il conoscere è sempre un atto gioioso. Tutte e tutti sappiamo che la
violenza esiste e che patirla è orribile, ma la violenza toglie la parola non la da.”
Noi siamo respinte dal parlare di nuovo di violenza sulle donne dall’idea anche giusta che
questo discorso ci faccia sentire fragili, vittime, ci autoconsoli e non cambi nulla. Io penso
che esista il pericolo che si possa avvilire la nostra forza e l’idea gioiosa di cambiare il
mondo parlando di violenza sulle donne, ma che non nominarla in modo nuovo, non
scendere senza paura in una storia antica che si rinnova e non muore, significa non
riuscire fino in fondo a cambiare, a trasformare alla radice il rapporto tra i sessi, che è poi
la base dell’edificio nel quale viviamo.
Dopo l’assassinio di Stefania Noce ho pensato che mi sarebbe piaciuto scrivere un dialogo
come Libere tra un ragazzo e una ragazza, entrambi amici di lei e di lui. Poi ho capito che
non avrei potuto scriverlo prima che tra noi si discuta a fondo di tutto questo. Ho
cominciato a fare una raccolta in rete di testimonianze e di fotografie. Una delle fotografie
che mi ha più colpito è quella di Stefania abbracciata al suo ragazzo. Vorrei chiamarlo solo
così guardando la foto, ma sappiamo che è diventato altro. Eppure studiandoli, mi sembra
ci sia già qualcosa da capire, da approfondire: Stefania tiene stretto il suo ragazzo a piene
braccia, lo stringe al petto, solare, sorridente, bellissima. Lui si è “rifugiato” nelle sue
braccia, tenero, indifeso, scontroso: un bambino difficile ma per questo così amato dalla
madre ragazza. Non possiamo discutere, affrontare il tema della violenza senza parlare di
noi, senza tirare dentro anche il sentimento materno, la sessualità, le madri, il rapporto tra
madre e figlio maschio. E aggiungo senza tirare dentro gli uomini, soprattutto i più giovani.
Anche se sono convinta che non sia facile farlo e che anche qui ci siano rischi che le
ragazze stiano zitte davanti ai loro coetanei, per vergogna, per paura che nominare la
violenza ci faccia sentire di nuovo vinte, subalterne. In questo senso non è una questione
facile da affrontare e non mobilita immediatamente le donne e gli uomini, oppure mobilita
le donne in un modo autolesionista che non ci interessa, ma proprio per questo è
fondamentale affrontarla, esattamente come è stato per il tema della libertà delle donne e
dell’analisi che ne abbiamo fatto prima di scrivere l’appello del 13 febbraio.
Rita Cavallari
Nel 2010 abbiamo avuto in Italia 127 “femminicidi”. Nel 2006 erano stati 112 (prendo il
dato da “Amorosi assassini”, 2008 Laterza). C’è stato un incremento, ma soprattutto un
desiderio di non chiudere gli occhi di fronte a questo fatto. C’è una diversa attenzione, si
percepisce in modo diverso la violenza nei confronti delle donne. Questo soprattutto da
parte delle donne stesse. In Spagna la legge contro le violenze di genere risale al 2005,
quando si erano verificate, in un anno, 70 uccisioni di donne. La legge spagnola prevede
tribunali di genere e procuratori specializzati nella materia. Facendo il rapporto tra
popolazione e uccisioni di donne l’incidenza dei femminicidi in Italia, nel 2006, era
superiore al dato spagnolo, ma da noi l’attenzione alle violenze di genere nasce ora.
Perché? Perché ora è il momento in cui le donne, con la loro forza, vogliono cambiare il
paese. Nel 2011, col 13 febbraio, le donne hanno chiesto la responsabilità di governare il
paese. Femminicidio e allontanamento delle donne dalla scena politica sono due aspetti
della violenza maschile. L’eliminazione fisica è l’annullamento della persona, lo stupro è
volontà di sopraffazione di un genere sull’altro, il monopolio maschile dei luoghi del potere
è la cancellazione delle donne dalla scena pubblica.
Dobbiamo rompere il velo della rimozione.
Simonetta Robiony
Non allargherei, io, troppopieno la nostra manifestazione sulla violenza perché il tema
stesso ha mille implicazioni: basta legarle tutte, accennando a rappresentanza,
rappresentazione ma soprattutto cultura che a me pare centrale. All’università, cento anni
fa per me, ho fatto alcuni esami di antropologia culturale, mi colpì molto una riflessione sul
linguaggio non verbale: veniva spiegato che nei paesi arabi una donna, anche se di
potere, non veniva mai lasciata da sola in una stanza con uno o più uomini perché questo
avrebbe significato che era disponibile a rapporti sessuali. il fraintendimento culturale mi
pare alla base della attuale violenza dei maschi. Noi ci mettiamo la minigonna perché
davanti allo specchio ci piaciamo: abbiamo belle gambe, ne siamo fiere, le mostriamo.
Loro pensano che lo facciamo per offrirci e per provocarli. Quando diciamo no, loro lo
vivono come una rivolta, una offesa, noi come una libera scelta che andrebbe rispettata.
Lo sperimentiamo tutti i giorni. Io sono sposata da più di 40 anni, mio marito è un uomo
gentile poco incline ad atti violenti, ma pratica nei miei confronti una violenza più sottile:
non mi vede per quel che sono, mi sminuisce, mi chiama con nomignoli affettuosi che mi
rappresentano come una sciocchina, distratta ma buona, cosa sbagliatissima perchè io
posso essere stupida ma non sciocchina, generosa ma non buona. La cosa curiosa è che
non me ne importa molto. non mi sento sminuita da questo atteggiamento. Mi sono chiesta
perchè. La mia risposta è che dai miei genitori ho avuto un forte rafforzamento del mio io
profondo, credo di sapere quel che valgo e quel che non valgo, mi curo poco del giudizio
altrui. Non so se sia un bene o un male ma è così. Sono sicura di me. vorrei solo essere o
meglio esser stata bellissima ma questo e’ un altro discorso. Credo che sia a ragione di
questa mia sicurezza interiore che le molestie, chiamiamole così, ricevute dagli uomini nel
corso della mia vita, non mi hanno mai turbato. Anzi ho sempre visto questi maschi come
ridicoli, pietosi, fragili e me ne sono sempre difesa con una risata e parole gentili ma
ferme. voglio dire: non ne ho avuto paura. A me pare che le donne debbano imparare a
non avere paura smontando quando è possibile ogni equivoco e se no rivolgendosi alla
legge, negandosi, rifiutando ogni scusa. In un paio di casi ho dovuto anche dare qualche
schiaffo. E’ servito. Ha fatto effetto. Oggi che ho più di 60 anni ovviamente non mi accade
più di farmi fraintendere con il mio atteggiamento sorridente e partecipativo: oggi che sono
vecchia sono invisibile. Ma resta il mio pensiero: noi donne siamo forti. Facciamolo vedere.
Fabrizia Giuliani
La violenza è un tema che dobbiamo affrontare singolarmente, e insieme agli uomini. Solo
così possiamo:
– Far sì che la questione si politicizzi, si ponga al centro dell’attenzione e acquisisca
quindi visibilità.
– Far sì che la nostra azione abbia forza, peso e cambi le cose.
Questo non vuol dire isolare la questione. Al contrario per dargli questo spessore
dobbiamo mostrare i nessi che legano la violenza agli altri aspetti che abbiamo identificato
nella nostra proposta politica, a cominciare da ciò che in gergo chiamiamo
rappresentazione – il modo in cui in parole e immagini questo paese raccontano le donne,
ma anche il lavoro, il welfare e la rappresentanza. In altre parole dobbiamo mostrare come
tutto si tenga e la violenza sia solo l’aspetto, più vistoso, brutale e ineludibile del rifiuto
della differenza femminile, consapevole di sé e libera.
Lo abbiamo già detto: i dati sulle dimissioni in bianco, sull’abbandono del lavoro al primo o
al secondo figlio sono l’altra faccia dei dati sulle “donne che non ci sono” o sono troppo
poche, dove si decide – si distribuisce e si taglia-, e delle donne che muoiono. E ancora
come ci dice e ridice Linda Laura Sabbadini, gli stessi dati dei servizi inesistenti e mai
davvero progettati – ossia il welfare che non c’è ma è necessario per consentire alle donne
una vita LIBERA e PIENA – sono ugualmente espressioni di quel rifiuto.
L’accesso alla sfera pubblica – al lavoro, alla creatività, al pensiero, al sapere, alla politica
– a dispetto dei diritti che lo consentono, per le donne è di fatto impossibile. La differenza
che le segna nel corpo e che si manifesta nella sessualità e nella maternità – anche solo
possibile – è rifiutata. O l’omologazione: lavoro, desidero, non faccio figli – come un uomo,-
o un’incondizionata disponibilità al desiderio che la storia recente ha raccontato benissimo.
Per comprendere a fondo oggi cosa sia la violenza contro le donne dobbiamo porla in
relazione con questi aspetti. Le donne che muoiono per mano maschile – un altro primato,
il più orribile, che distingue l’Italia nel panorama europeo- raccontano di un cammino di
libertà interrotto. Veniamo allevate alla libertà, come scriveva Cristina Comencini, ma fuori
non ne sanno niente e tutto va avanti nel solito vecchio modo. L’altro non è pronto al
confronto con questa consapevolezza e al manifestarsi dell’indisponibilità reagisce
uccidendo e cancellando. E siccome nel senso comune questo, ancora, non è uno
scandalo, un crimine, la notizia non c’è, a stento compare un trafiletto. Non c’è
responsabilità nel colpire la libertà di una donna se questa si oppone al volere e al
desiderio di un uomo. E allora scattano la protezione, la complicità, l’omertà, la rimozione,
maschili; ma dobbiamo dire che c’è rimozione anche tra noi, almeno tra noi allevate alla
libertà, nell’illusione che il mondo fosse nostro come lo era dei nostri coetanei uomini.
Fatichiamo a riconoscere questi gesti perché ci restituiscono una differenza faticosa.
Perché ci restituiscono il limite di una fragilità che è propria di tutte le relazioni che ci
espongono all’altro. Perché ci restituiscono il peso del nostro corpo differente – e del suo
limite appunto.
Invece la forza è guardarla in faccia, la violenza e chiamarla con il suo nome, senza
vittimismo, pianti, lacrime. Ma mettendo in campo una consapevolezza e una forza nuove.
Non c’è trappola nella violenza, piuttosto la vedo nella sua rimozione. Dobbiamo segnare
una fase nuova, riuscire a far camminare insieme tutto e non opporre un aspetto all’altro.
Ci hanno fatto credere che ci fossero questioni di serie a e b, e questioni politiche e non.
La nostra vita ci dice che non è così e ci ha insegnato molto bene che la forza più grande
è riconoscere, guardare in faccia la fragilità e le cose che non vanno.Le donne riusciranno
ad entrare massicciamente nei centri decisionali e conteranno davvero solo quando
smetteranno di morire – almeno con questi numeri – e di essere raccontate in questo
modo.
Lidia Ravera
La violenza contro le donne non è soltanto un coltello piantato alla gola. Parlare di
violenza contro le donne non è ricadere nella cultura del lamento, né abboccare alla
furberia politica di volerci relegare lì, dove siamo tutti d’accordo ( uccidere la ragazza che ti
ha mollato non è una pratica consentita), distraendoci da lotte più imbarazzanti come
quella per la parità nella rappresentanza ( se il 50% dei posti a sedere ai piani alti vanno
alle donne un buon percento di maschi si deve scansare).
Noi non ci distraiamo.
Noi non ci lamentiamo.
Noi vogliamo capire, e dopo aver capito agire, e dopo aver agito gestire la transizione
verso una società di donne e uomini equipollenti ( diversi, ci mancherebbe, ma di eguale
valore)
La violenza sulle donne è trattarle da oggetti, è tenerle fuori, è offenderle se non
rassomigliano all’unico modello femminile incoraggiato: la bella e giovane, subalterna e
disponibile.
Quindi la violenza sulle donne è molto diffusa.
Molto più diffusa di quella che mette tutti d’accordo, il femminicidio.
Comunque, oggi un’ altra. Buttata dal balcone.Si indaga l’ex marito.
Le donne non possono mettere fine a una relazione. Sono funzione del desiderio maschile
no? E il maschio non desidera essere lasciato.
Noi dobbiamo studiare il tema della violenza sulle donne, senza piangere.
Andando a fondo.
Lavorando sui nessi segreti, inconsci, sui non-detti, sui non dicibili.
Tutte le nostre battaglie sono collegate fra loro: la rappresentanza,la rappresentazione, la
violenza.
Se fossimo la metà del mondo che conta, se in politica ci fossero le donne che vogliamo
noi e non quelle che vogliono le segreterie dei partiti, se fossimo persone e non cose, se
potessimo invecchiare ed essere brutte senza diventare dei paria o degli zombie. Se non
fossimo “rappresentate” con la sconcia sineddoche ( una parte per il tutto): fiche.
Se fossimo “rappresentate” da una folta schiera di donne come noi e non da una piegata
minoranza di donne omologate.
Se l’intelligenza femminile brillasse sugli schermi, nei cda, nelle fondazioni, nei giornali,
nelle scuole.
Saremmo rispettate. Saremmo in salvo.
Potremmo morire in duello, ad armi pari, non massacrate da uno più forte di noi nel corpo,
più debole nell’anima.
Noi la violenza la vogliamo analizzare insieme agli uomini, perché finchè loro non
impareranno a pensarsi come parziali, come appartenenti a d uno dei due soggetti e non
ad un astratto e potente “universale”, la strage continuerà.
Noi piangeremo le nostre morte, loro la loro solitudine.
Inviteremo perciò gli uomini a riflettere sulla loro sessualità, sui loro automatismi, sulle vergogna
di genere da cui i migliori devono smarcarsi, i peggiori liberarsi.
Titti Di Salvo
Violenza e rappresentanza.Ma c’è un legame?
-Ci siamo chieste se aveva senso tenere insieme nella nostra discussione il tema della violenza sul
corpo delle donne con quello della violenza della loro cancellazione dalla vita pubblica,tenute ai
margini della costruzione del senso del mondo, escluse dalla scena pubblica.
La mia risposta è che ha molto senso almeno per due ragioni.
-Perché il fatto che arrivi da tante e anche da molti uomini la richiesta a “Se non ora quando” di un
atto pubblico,un’iniziativa ,un gesto difronte al femminicidio che continua ,dimostra che “Se non ora
quando “ è riconosciuta come soggetto collettivo che deve e può assumere la responsabilità di
agire di fronte alla violenza:è una richiesta di rappresentanza.
-Perché la catena degli assassini delle donne ,nelle case più ancora che nelle strade, parla di
relazioni malate ,di maschi padroni incapaci di sostenere relazioni libere e autonomia delle donne.
Parla anche di una società fatta di solitudini,violenta con le persone violente a loro volta nelle loro
relazioni.Racconta di una violenza esterna alle relazioni tra le persone e che agisce su di esse.
La presenza delle donne là dove le scelte si prendono ,quelle necessarie per rompere le
solitudini,per finanziare i centri antiviolenza,per costruire nelle scuole la cultura della libertà e del
rispetto,per bonificare la rappresentazione pubblica delle donne nelle televisioni e nella
comunicazione,è l’unica garanzia che si assumano le decisioni giuste.Quelle necessarie a sradicare
la violenza intorno alle donne ,sulle donne e contro le donne.
Fabiana Pierbattista
E’ sempre molto complesso e difficile parlare di violenza, la violenza non è mai una sola,
attraversa più piani, è forte, sfrontata, esibita, ma anche subdola, insinuante e riguarda
tutti, i maschi e anche le donne. Riguarda le donne perché tutte noi facciamo una gran
fatica a vedere quella parte di complicità che esercitiamo; molte di noi hanno avuto o
avranno storie con uomini distruttive e brutali, da cui sono uscite o usciranno annientate,
piegate, lese, ecco quella fatica che le donne fanno a dare il nome appropriato, parla di
una subalternità antica che molto si lega con quanto scritto da Alessandra. Le donne
nascono con un ruolo già assegnato di vittime, di prede e poi se lo declinano con forme
diverse, ma che chiamano, a diverso titolo, in causa buona parte di noi. Godiamo
pienamente i frutti del femminismo, viviamo vite in cui abbiamo cercato di avere
riconoscimenti che le nostre madri non chiedevano, ma facciamo ancora tanta fatica ad
uscire da una parte assegnata, a vedere e soprattutto a chiamare la violenza con il nome
che le è proprio. Questo è certamente un punto da cui partire, ma non il solo. Se leggiamo
i dati impressionanti in continua crescita, ci dicono che la maggior parte delle donne che
subiscono violenza sono donne con alto livello di alfabetizzazione, che significa? La prima
risposta, la più semplice è che sono le donne con un alto livello d’istruzione e di
consapevolezza che denunciano e certamente in buona parte è così, ma non mi basta. Io
credo che negli ultimi trent’anni, negli anni del post femminismo, le donne in qualche
maniera, con fatica certamente, siano riuscite a costruire una forza e una consapevolezza
maggiore rispetto ai maschi, questo ha portato ad equilibri di forza assolutamente sballati,
mi spiego: a un privato che ha registrato inevitabilmente questa forza, non è seguita
un’adeguata proiezione pubblica, dove a detenere il potere sono sempre stati maschi.
Questo ha portato ad un ulteriore incattivimento dei rapporti; frustrati e violenti nel privato,
sfacciati e volgari nel pubblico, dove la cancellazione delle donne dalla partecipazione
politica, l’istituzionalizzazione dell’ancillarismo parlano, e di questo dobbiamo essere tutte
consapevoli, di violenza. Perché nella cancellazione delle donne dalla scena pubblica o
ancora nella loro rappresentazione oscena di questi anni c’è una rabbia, un livore e una
violenza che non si spiegano con altre parole. Il nodo quindi è profondo, tocca tanti piani,
politico, culturale e giuridico. Niente come il diritto infatti, è specchio fedele della cultura di
un popolo, la rappresenta e la codifica, ora il legislatore del nostro Paese e questo è
indubitabile, ha fatto una fatica incredibile a riconoscere al corpo delle donne la piena
soggettività e titolarità di diritti. E penso al reato di adulterio, al delitto d’onore, alla riforma
del diritto di famiglia o alla rubricazione del reato di violenza sessuale da reato contro la
morale a reato contro la persona avvenuta solo nel 1996, per tacere di 194 o della legge
40. Questo per dire che i due piani sono strettamente intrecciati. Il neutro del diritto è un
neutro declinato al maschile, anche perché sono pochissime le donne nelle assemblee
legislative e anche questo è un punto. Penso anch’io che dobbiamo organizzare una
grande campagna contro la violenza, ma dobbiamo anche sapere che, come la
rappresentazione anche la rappresentanza si tiene insieme a questo tema. Non è
certamente scontato, ma più donne nei luoghi deputati a legiferare possono essere la
garanzia di un legislatore non più neutro, perché partecipato anche al femminile. Un
approccio multiplo, quindi, con il nostro linguaggio nuovo e con il nostro modo tutto nuovo
di tenere insieme più piani, sapendo che tutto parla della nostra condizione, del nostro
essere cittadine in questo Paese oggi, nell’anno zero e non possiamo leggere o parlare di
una sola parte senza tenere anche le altre. E tanta più’ forza avremo in questo percorso,
quanto più riusciremo a coinvolgere i nostri compagni, i maschi e le istituzioni ai diversi
livelli.
.
Loredana Taddei
Terrei separate violenza e rappresentanza, due temi importanti e urgenti da
affrontare, ma seppure affini, per la loro complessità, credo sarebbe più
efficace trattarli separatamente. Se possibile con due gruppi di lavoro in
parallelo. Altrimenti si corre il rischio di un messaggio confuso, con troppe
articolazioni da portare a sintesi.
Una campagna comunicativa contro la violenza deve già tener conto di
tante declinazioni. Perchè sia incisiva bisogna agire sul fronte culturale,
mediatico, politico. C’è la violenza domestica e c’è quella nei luoghi di
lavoro, che va dallo stalking, al ricatto, alla molestia sessuale, al mobbing
all’umiliazione costante.
Bisogna contrastare l’accettazione, l’assuefazione e la connivenza delle
donne, l’apatia della politica, l’assenza delle istituzioni. Inasprire le pene,
denunciare la scarsissima informazione rispetto alle misure di prevenzione
e di protezione.
Così come è necessario sensibilizzare l’opinione pubblica spesso
indifferente, assuefatta allo stillicidio quotidiano, con meccanismi simili
alle morti sul lavoro: in media tre al giorno, non fanno più notizia. Peggio,
diventa nell’opinione comune un dato ineluttabile, un prezzo da pagare
quando si lavora.
L’assuefazione e la sottovalutazione sono favorite dal linguaggio dei
media, che ancor oggi parlano di delitto passionale, di gelosia accecante, di
amore e cose del genere. Allora come per le morti sul lavoro anche la
violenza contro le donne diventa un dato fisiologico, un prezzo da pagare
nel rapporto di coppia, nella sfera familiare e sentimentale.
La scuola e la formazione sono fondamentali, perché attraverso la
diffusione di strumenti tra gli insegnanti circolino informazioni sulla
differenza di genere, sul rispetto della persona.
E’ importante poi decidere se puntare ad una campagna di informazione e
di sensibilizzazione o di denuncia e pressione. Se rappresentare la donna
come un soggetto che si deve difendere e che va difeso, oppure come una
persona forte, che dice basta, che esige il rispetto dei suoi diritti insieme
all’adozione di misure che la tutelino maggiormente. Se parlare soltanto
alle donne, come sempre si fa, o anche agli uomini che sono decisamente
parte in causa.
Francesca Izzo
Dalle molte e notevoli osservazioni che sono riuscita ad ascoltare ricavo la conferma che
affrontare il nodo della violenza in modo non subalterno, inefficace e deprimente (come
purtroppo è già accaduto) sia cosa non semplice.
Innanzitutto perché attorno ad esso si giocano come in uno specchio la nuova fragilità dei
maschi (lo hanno detto in molte ) che fanno fatica, non riescono ad accettare la libertà, la
forza femminile e quindi per angoscia e impotenza arrivano a rompere lo schema di
rapporti “civili” tra i sessi, a picchiare, uccidere ma anche la debolezza delle donne. Quella
debolezza che nessuna delle donne “affermate”( le dirigenti di cui ci parlava Lorella
Zanardo), nessuna delle ragazze, delle più giovani (Giorgia) vuole sentirsi ributtare
addosso, perché ricorda a tutte, specie a quelle che sentono di primeggiare per sapere,
competenza, finezza, ricchezza di educazione sentimentale, di correre il rischio
dell’atavismo della prova di forza fisica a cui gli uomini ricorrono per riaffermare il loro
potere.
Noi dovremmo riuscire a fare fronte a questa duplice paura, a portarla allo scoperto.
Coinvolgere gli uomini, innanzitutto
Coinvolgere donne “importanti” che simbolicamente testimonino che la violenza non è, non
deve essere un ulteriore segno di disvalore delle donne.
Questi sono gli interventi di una prima riunione che si è svolta a Roma venerdì 23 marzo
sul tema della violenza sulle donne. Alla riunione erano presenti alcune donne del comitato
promotore di Snoq e Lorella Zanardo che aveva chiesto l’avvio di una discussione
comune. Nella riunione abbiamo solo iniziato a scambiarci delle idee. E’importante che la
discussione si allarghi a tutte le donne, ai comitati, ai centri antiviolenza, in rete. E’ venuta
da tutte la convinzione che prima di una possibile mobilitazione nazionale ma forse anche
europea, dobbiamo andare in profondità su un tema difficile e che è secondo noi da
riproporre in un modo nuovo e forte. Pensiamo inoltre di promuovere due incontri nazionali
su rappresentazione delle donne e violenza, da organizzare a Torino e a Bolzano in due
date date che sono ancora da definire.
Cecilia D’Elia
Io non userei la parola emergenza perché può essere fuorviante. Direi che si tratta di una
priorità di cui la politica dovrebbe occuparsi e che dovrebbe essere al centro del discorso
pubblico. Che la violenza sessuale non sia un’emergenza del momento lo possono
raccontare le donne che lavorano nei centri antiviolenza, che organizzano i corsi nella
scuole per discutere di sessualità. La violenza sessuale continua ad essere problema che
riguarda le relazioni tra uomini e donne, è figlia di una concezione possessiva e predatoria
della sessualità maschile. Interroga una cultura machista oggi molto in voga nel nostro
Paese. Dobbiamo lavorare su questo incrocio di modernità e di arretratezza. Mi
convinceva la proposta di Izzo di fragilità maschile e debolezza (fisica) femminile.
Rimettere al centro i corpi. Dobbiamo farlo con gli uomini.
La violenza è la prima causa di morte delle donne, anche nell’occidente “sviluppato”.
Conosciamo di più perche si denuncia di più. Nel 2007 l’Istat fece la prima indagine,
importante perché basata sulle interviste alle donne e non solo sulle denunce. Veniva fuori
che era un’esperienza “di massa”, con sfumature diverse, nella vita delle donne, dunque
anche degli uomini, i nostri uomini, quelli che amiamo e stimiamo, anche colti e raffinati.
Violenza va aggredita su più fronti, quello culturale è essenziale, politiche pubbliche, tutto
quello che è stato fatto è stato fatto dagli enti locali (centri antiviolenza, ecc) insieme
all’associazionismo femminile, manca politica nazionale. Spagna si è data legge che
interviene anche sui tribunali, sul percorso dopo la denuncia e se non sbaglio sui centri.
Bisogna poi formare gli operatori, tutti. La polizia, i pronto soccorso, ma anche quelli che
fanno lavori notturni, dai fiorai agli autisti degli autobus a tassisti, su come intervenire se si
vede o si suppone ci sia un caso di violenza. Questo per costruire su strada una rete di
solidarietà.
Ad un dibattito che facemmo in provincia su un numero di questione giustizia dedicato alla
violenza conto le donne Paolo fallai, giornalista del corriere raccontò molto bene come
costruivano la notizia. Io penso che la stampa vada tirata dentro, anche gli uomini, perché
il tipo di discorso pubblico che veicoliamo è decisivo.
Donatella Ferrante
Dopo l’incontro di venerdì 23 mi è rimasta dentro la consapevolezza di un passo molto
importante per Snoq. E anche per me come persona.
Andare avanti come ci siamo dette… Immagino che il 13 abbia avuto una genesi analoga:
affrontare una complessità enorme e trovare la chiave giusta, politica e popolare per dare
un senso, un direzione al disorientamento e una speranza di cambiamento.
Difficile anche nominare la violenza se solo ci avviciniamo ad essa con profondità, voglio
dire se oltre al piano della denuncia, dei numeri terribili, della solidarietà, proviamo a
cercare di capire quel buco nero, l’enigma che c’è dietro a quella foto di Stefania che
Cristina ha sul computer. (E’ un’ altra cosa, ma ho pensato al film “Quando la notte”, a
come Cristina ha lì esplorato un altro enigma e un’altra soglia)
Tempo fa ho letto il libro della Melandri “Amore e violenza”. Trovo che sia un contributo
importante, soprattutto i due capitoli centrali, Madri e amanti e Il circolo degli uomini. Qui,
tra l’altro, si cita una intervista a dieci uomini su un numero di Liberazione del 2005 sul
tema “Maschi perché uccidete le donne”. Potrebbe essere utile per capire come
coinvolgere gli uomini, prospettiva che, pur tenendo conto dei rischi, trovo anch’io un
elemento innovativo e cruciale.
Mi chiedo dove e perché e come e quando la condizione culturale, la divisione del potere
che viviamo diventa violenza. I reati sono l’ultima fase di violenze crescenti, di un
continuum che parte anche da piccole umiliazioni o negazioni/intimidazione della/alla
nostra autonomia, un percorso che è parallelo a quello che ci porta dall’accettare -quasi
senza accorgercene- di “stare al nostro posto”, alla negazione della brutalità, alla
vergogna di dire, anche quando l’interlocutore, magari, è una nostra amica.
Ieri proponevo anche questo tema: non c’è violenza, ma prepotenza del mondo maschile o
“maschilizzato”, in alcune dinamiche nel mondo del lavoro dove ci accontentiamo della
concessione di qualcosa, piuttosto che reclamare i nostri diritti.
Certo, dobbiamo evitare di far sentire colpevoli tutti gli uomini, ma dobbiamo essere un
punto di forza per le donne e di consapevolezza per entrambi ( anche per le manager che
fuggono…..)
Molte di noi già sono in contatto con centri antiviolenza, associazioni: penso che ascoltare
le loro esperienze sia importante. E poi sicuramente Maschile Plurale.
Sul tema del rapporto tra violenza e esclusione dai luoghi di decisione politica e non solo.
Ieri ne parlavo con Renata a telefono, raccontandole la nostra riunione e lei mi faceva
notare come nel nord Europa ( dove sono molto più avanti di noi sulla presenza femminile)
i dati statistici sulla violenza sulle donne sono molto elevati. Come interpretare tutto ciò?
Dobbiamo metterci in contatto con qualcuna che conosce la situazione nei paesi
scandinavi.
Infine sulle ministre: l’impegno che abbiamo davanti è enorme, abbiamo solo iniziato:
personalmente non sono d’accordo con una interlocuzione con loro in questo momento,
proprio per la profondità e la radicalità di ciò intorno a cui stiamo lavorando, abbiamo detto
che ci davamo un tempo giusto ed adeguato e andare a parlare con loro ora per me non
ha molto senso, anzi rischia di esser qualcosa che da un alto disperde le nostre energie e
dall’altra le contiene, le chiude in un dialogo che apparirebbe veramente troppo stretto e
forse intempestivo. Rischiamo di far prevalere una interpretazione del nostro intervento
parziale o di sola denuncia ( che pure serve, è chiaro), ma non così potente in termini
politici, come ciò che abbiamo intrapreso e che stiamo costruendo
Cinzia Guido
Premetto che ciò che penso è permeato dal mio essere una donna del Sud, anzi una bambina che
è diventata donna al Sud.
Diventare donna ha per me significato vivere una violenza quotidiana, fatta di parole, sguardi,
ammiccamenti continui, fino ad arrivare agli inseguimenti per strada, alle mani che escono dalla
macchine per toccarti. Ho “nascosto” la mia femminilità per anni per difendermi da questo e
diventare donna è stato per me un po’ una violenza.
Eppure rispetto all’oggi, ricordo una maggiore condivisione su questo tema. Nel mio liceo
conoscevamo le ragazze che avevano subito violenza, avessero o meno deciso di sporgere
denuncia, e verso di loro c’era un sentimento collettivo di solidarietà, da parte . Non ho gli
strumenti per valutare appieno, ma mi sembra che questo oggi manchi.
Per andare indietro e provare a leggere le cause, sicuramente anche per me uno degli aspetti da
analizzare è il rapporto con la madre.
Nella nostra società il modello di madre proposto è quello di una madre sempre presente, che
risponde e appaga tutti i bisogni del bambino. Un modello che ha avuto paladini in ogni area
culturale qui in Italia e non solo, da Giovanni Bollea, così amato dalla sinistra, alla Chiesa
Cattolica, che nell’enciclica Mulieris Dignitatem ha sì restituito dignità alla donna, ma all’interno di
un disegno in cui la sua vocazione è “prendersi cura”.
Questo modello è talmente POTENTE che di recente una giornalista inglese che vive in Italia ha
invitato le donne a dire ai propri mariti di farsi stirare i vestiti dalle loro madri. Non dunque imparare
a provvedere a se stessi, ma continuare a chiedere ad una donna di occuparsi di loro!
Anche le donne hanno il loro peso nel perpetuarsi di questo modello, a me sembra di vedere tante
di noi poco inclini a rinunciare al potere all’interno delle relazioni familiari: si preferisce giocare il
ruolo di Ape Regina, negando al maschio qualunque ruolo di accudimento nei confronti dei figli.
Questi figli che diventano poi uomini, vivono permanentemente nel ricordo di questa madre così
presente e disponibile nei confronti di ogni richiesta, di ogni bisogno.
Di fronte a questo modello, il sottrarsi della donna che compie una scelta di rottura della relazione
affettiva è vissuto come un venir meno a ciò che è naturale, legittimo, dovuto. La risposta maschile
è la negazione della soggettività femminile attraverso la violenza, negazione che si spinge fino
all’omicidio: senza di me tu non PUOI vivere.
Un altro aspetto è io credo legato al fatto che mentre noi donne ci siamo ridisegnate un ruolo,
anche se con tanta fatica, a partire da noi, da ciò che siamo e vogliamo attraverso un percorso
lungo e condiviso, gli uomini si sono trovati ridefiniti nel loro ruolo a partire dal nostro
cambiamento.
Non quindi un percorso scelto e consapevole, ma un’azione “di rimessa”: è come se fossero un po’
venuti a rimorchio. Per questo trovo fondamentale che il percorso che vogliamo fare sia fatto
insieme agli uomini.
Giorgia Serughetti
Credo che la nostra azione contro la violenza debba tenere conto di due considerazioni.
La prima, è che la violenza maschile nasce all’interno della costruzione della mascolinità,
degli immaginari maschili, del rapporto tra genere maschile, desiderio, potere. La violenza
esprime più precisamente il crinale particolarmente problematico sul quale gli uomini si
muovono nella costruzione della loro identità di genere e nella relazione con il femminile:
incapaci di conformarsi a modelli tradizionali, per i quali non dispongono più delle risorse
materiali (lavoro sicuro, reddito…) né simboliche (il linguaggio del virilismo) del passato,
ma anche incapaci di ricostruire i propri modelli sulla base della reciprocità, della parità,
della libertà dei due generi nelle relazioni intime, private, economiche, politiche. Gli uomini
violenti portano a una consistenza brutale, deviante, patologica, ciò che si annida però
nella normalità di una mascolinità in transizione. Perciò un’azione capillare ed energica
contro la violenza non può prescindere dal alleanza con gli uomini, il movimento degli
uomini anti-sessisti e molti altri uomini disposti a ripensare con noi il maschile e le
relazioni.
La seconda considerazione complica la prima. La violenza è scandalosa, indicibile, perché
riguarda il nostro privato, il privato, l’intimità di tutte e di tutti. Ma la soluzione non può
essere, o non può essere solo, privata, legata all’educazione, alla consapevolezza di
uomini e dinne rispetto alla forma e i contenuti delle relazioni. La violenza ha un riflesso
pubblico che complica la cosiddetta “crisi” del maschile. Le donne sono più padrone dei
loro corpi di quanto lo siano delle loro rappresentazioni: una chiave della violenza
contemporanea sulle donne credo sia nella rappresentazione di perpetua disponibilità
delle donne, sessuale ma anche affettiva, relazionale, di cura. Uomini che non sviluppano
nuovi modelli forti e consapevoli di relazione con il femminile, ma solo modelli reattivi o in
alternativa vittimistici, trovano nella fantasmagoria delle immagini, delle rappresentazioni
dei corpi femminili e del potere maschile un sostegno ideale ai modelli tradizionali. In
questa contraddizione sta una radice fondamentale, credo, del comportamento violento.
Su questo terreno della rappresentazione l’azione deve essere pubblica.
Licia Conte
Con il 13 febbraio abbiamo rivendicato la nostra dignità: non siamo cose o pezzi di carne.
Questo abbiamo detto e il popolo italiano ci ha capito.
Nell’andare alla radice della violenza che quotidianamente colpisce le donne ci
apprestiamo a indagare sulla ragione più profonda e antica della disparità. Gli uomini
hanno segregato le donne semplicemente perché più forti fisicamente, esercitando il
dominio, quello più brutale, quello fisico.
Nei vari processi di civilizzazione che si sono succeduti nelle culture umane questo fatto è
poi rimasto in ombra, occultato. Ma quando l’ondata civilizzatrice perde vigore le donne
tornano a soffrire di più: si fa più pesante l’oppressione anche fisica. I processi di
civilizzazione infatti hanno sempre al centro le donne e la loro condizione.
Nel nostro Continente il riscatto dai secoli bui si palesò con l’avvento e poi l’affermarsi
della cultura “cortese” del “dolce stil novo”. Menestrelli e poeti cantavano le lodi delle
signore dei castelli medievali, che del resto erano spesso assai più istruite dei loro
consorti. La promozione femminile non fu però indolore: la donzella medievale
consegnava al suo paladino la stessa sua difesa fisica, oltre che quella del suo onore, e ne
accettava di fatto la tutela.
Da solo 150 anni circa le donne cercano di scrollarsi di dosso questa tutela, ma la partita
non è certo chiusa. Nelle mentalità maschili più fragili e primitive la questione può porsi
ancora in questi termini: se non ti sottometti, ti sottometto e se non ho più dalla mia il diritto
faccio ricorso all’arma di sempre: la mia forza che è superiore alla tua.
Perciò solo andando a disvelare questi meccanismi si può sperare di avviare un vero,
ampio e straordinario processo di nuova civilizzazione umana, che veda al suo centro
l’uomo e la donna alla pari, mettendo da parte una volta per sempre l’idea che la forza
fisica sia la ragione più grande che gli uomini hanno a disposizione. Anche perché non è
vero: gli umani sanno di aver sconfitto altri viventi con la forza della ragione e non con la
ragione della forza.