Ogni settimana le nostre corrispondenti dall’Europa e dal mondo ci racconteranno come si vive da italiane all’estero. I pro e i contro delle nuove migranti, per necessità o per piacere. Dalla loro esperienza prenderemo spunti, copieremo idee, accoglieremo i suggerimenti.
Grazie a Giulia Camin che inaugura questa rubrica!

Care amiche,
mi chiamo Giulia, sono italiana, ma vi scrivo dal mio appartamento a Parigi, dove abito.

Eh sì, anche io, come tanti giovani italiani, ho deciso di emigrare, spostarmi, fare valige e
ripartire da altrove. L’ho deciso senza troppo preavviso: è bastato uno slancio, la necessità di un
cambiamento concreto, la voglia di imparare e vedere altro, e un pizzico di coraggio. Avrei dovuto
farlo prima? Probabilmente sì, ma ognuno ha i suoi tempi, dettati dal carattere e dalle contingenze.
Così, un agosto di qualche anno fa, ho messo in una tasca le mie lauree, nell’altra anni di esperienze
di lavoro, e sono partita.

Andando via ho rinunciato al camminare nelle silenziose calli veneziane, allo spritz e alla
possibilità di contemplare gli affreschi del Carpaccio ascoltando le lezioni del mio maestro di storia
dell’arte. Ho rinunciato ad avere la mia famiglia vicina, all’opportunità di litigare davanti al Tg
con i miei genitori o di vedere mia sorella e mia nipote Chiara ogni qual volta lo desiderassi. I miei
amici, a quelli no, non ho rinunciato partendo: erano già emigrati quasi tutti prima di me!

Mi sono lasciata felicemente alle spalle i concorsi universitari con vincitore già assegnato, tutti
quei contratti a progetto firmati e ciclicamente in attesa di rinnovo, quelle persone che a lavoro si
ostinavano a darmi del tu solo perché donna, quegli italiani che credono che il nostro paese sia il
centro assoluto del mondo, che solo da noi esista l’arte e la bellezza e che se non paghi le tasse fai
bene, tanto chissenefrega. Ho chiuso gli occhi e nel tempo di un viaggio quel paese in cui stranieri,
donne, omosessuali e trans vengono continuamente discriminati, non è più stato il mio.

Una volta superato il confine, il vaso di Pandora non si è aperto, è esploso! Prima ho abitato due
anni in Germania, a Colonia e a Berlino, poi mi sono trasferita a Parigi. Ora sono un’italiana
residente all’estero, con tanto di iscrizione all’aire. Abito nel 18esimo arrondissement e dalla
finestra, se mi sporgo guardando verso destra, vedo far capolino il profilo del Sacre Cœur.
Qui cerco di lavorare il più possibile nel mio ambito di formazione, sono storica dell’arte
contemporanea specializzata nella mediazione culturale, collaboro con una Fondazione d’arte ma
porto avanti anche altre piccole collaborazioni diverse fra loro. Fra queste, insegno italiano, lavoro
a distanza come traduttrice per un’agenzia stampa, scrivo, scrivo tanto, e scrivo soprattutto per un
meraviglioso blog che spero seguiate con assiduità (Un altro genere di comunicazione, dove il mio
lavoro si mescola a quello di altre 4 bravissime giovani italiane).

Partire è stato come abbattere una scenografia di cartone semplicemente per vedere cosa c’è dietro.
Traslocare vuol dire cambiare casa, abitudini e luoghi; è molto diverso dal viaggiare per tempi brevi
o per turismo. Non è sempre facile essere stranieri, ovviamente bisogna rimboccarsi le maniche,
avere voglia di guadagnarsi umilmente un proprio posto nella nuova dimensione. Ma allargare i
propri confini regala anche una sensazione di gioia esplosiva, quasi un delirio di onnipotenza. La
paura, l’emozione, fanno parte del gioco e rendono tutto più avvincente.

Partire vuol dire cambiare e cambiare vuol dire muoversi e commuoversi, nel senso di spostarsi
emozionandosi. Io ho provato in questi anni un vivace susseguirsi di emozioni, scaturite da ogni
passo avanti, ogni piccola novità o conquista. I cambiamenti spesso sono necessari.
Ero decisamente stufa di avere la sensazione di camminare sul posto. Se l’Italia di oggi non è un
paese per giovani, vi sembra forse un paese per le donne? Io ho la sfortuna di rientrare in entrambe
le categorie, perché restare? Infondo, nessuno ha detto che la partenza sia un processo irreversibile.
Si può sempre tornare, no?

Così, eccomi a Berlino, dove ho imparato a pronunciare con aria sicura parole di 20 lettere, a

mangiare camminando (c’è sempre un wurst malandrino che ti spara la senape nella narice quando
meno te lo aspetti!) e a sopravvivere passeggiando a meno 20 gradi. Arrivata a Parigi invece ho
imparato i nomi di 365 formaggi (uno per giorno, come vuole la mitografia), a parlare di cinema
ogni qual volta la conversazione sembra essere sul punto di spegnersi (coi francesi funziona
sempre!), a sgomitare furiosamente, ma con garbo, per trovare vittoriosa un posto a sedere in
metropolitana.

Non ho intenzione di banalizzare la mia avventura di emigrante; nelle prossime lettere cercherò
di tratteggiare meglio ulteriori frammenti di questa mia piccola odissea contemporanea, intanto
prendete la lettera di oggi come un assaggio.

Vi saluto con un passaggio tratto da uno dei miei libri preferiti.

Mettere, ritrovare o plasmare le proprie radici, strappare allo spazio il luogo
che sarà vostro, costruire, piantare, appropriarsi, millimetro dopo millimetro,
di una casa propria: appartenere interamente al proprio paese sapere di
essere delle Cévennes, diventare del Poitou.

Oppure: avere solo i vestiti che si portano addosso, non conservare niente,
vivere in albergo e cambiarlo spesso, e cambiare città e cambiare paese;
parlare e leggere indifferentemente quattro o cinque lingue; non sentirsi a
casa in nessun luogo, ma bene quasi ovunque.

Vi mando un caldo abbraccio, anzi caldissimo. Oggi a Parigi sono 31 gradi!
E, dimenticavo, naturalmente quella nella foto sono proprio io. Alle mie spalle, il canale di Saint
Martin.
A presto,

giulia