3094333E’ uscito Il Corpo delle Donne nella Universale Economica Feltrinelli, 8 euro.
Grazie per il sostegno che avete dato al progetto acquistando il libro che ha avuto un ottimo esito di vendite, è stato adottato da molte scuole come libro di approfondimento ed è stato letto anche da molti uomini.
Qui di seguito un brano che mi pare quanto mai attuale. Buona lettura!

Nell’ottobre del 2007, poi, un episodio che credo mi abbia spinto, inconsciamente, a iniziare il progetto de Il Corpo delle Donne.
Leggo che alla Triennale di Milano, un bellissimo spazio al Parco Sempione, c’è una mostra sugli anni settanta con foto e filmati d’epoca. Decido di andarci in bici con mio figlio Alessandro, undici anni: mi sembra una bella occasione per iniziare a raccontargli la Storia, quello che c’è stato prima di lui. La giornata è tiepida, le strade di Milano la domenica sono poco affollate e si pedala bene. Arrivati in vista del palazzo che ospita la mostra, intravediamo una coda interminabile che fa presumere almeno due ore di attesa.
Leghiamo le bici e decidiamo di metterci in fila: Ale si lamenta, non ha voglia di stare in piedi tutto quel tempo. Io intanto guardo la gente in coda con me per vedere la mostra. È completamente diversa da come mi aspettavo: molti ragazzini, moltissimi adulti dall’aspetto “televisivo” – abiti sgargianti, tacchi altissimi, pettorali in vista. Sembrano felici, ridono, parlano a voce alta. A un certo punto, parte un coro da stadio: “Enzo, Enzo, Enzo!”. Non capisco cosa sta succedendo, c’è fermento nella fila che intanto continua ad allungarsi. D’un tratto, mio figlio mi stringe la mano e grida: “Mamma, guarda! Veloce, dai! C’è il Gabibbo!”. Un boato accompagna la sua frase. Da una porta laterale è uscito un pupazzone rosso, di quelli che al circo fanno ridere i bambini. La gente pare impazzita, rompe la fila, corre verso il pupazzo. Mi guardo intorno confusa, quindi comincio a farmi strada, raggiungo la porta d’entrata, il servizio d’ordine trattiene la folla. “Scusi, ma è questa la coda per la mostra sugli anni settanta?” chiedo. “No, signora, dall’altro lato.” Troviamo finalmente l’entrata giusta: non c’è quasi nessuno, la mostra è al primo piano, abbiamo perso mezz’ora per niente, facendo la fila per qualcosa che non ho ancora capito cosa sia e che infine mi viene spiegata dal guardiano: “Venti di Striscia, signora, è la mostra per i vent’anni di Striscia la notizia, al piano terra. Lei invece deve salire al primo piano”. Ora capisco.
Quei volti da gitanti festosi sono in coda da ore per vedere da vicino un fantoccio e le foto di tutte le veline che si sono susseguite negli anni, forse anche per assistere all’apparizione di Ezio Greggio ed Enzo Iacchetti – anche se non è certo che arriveranno.
A metà salita, dove la scala gira, mi fermo. Da qui ho chiara la vista del piano terra: la gente grida, credo sia spuntata una velina in carne e ossa; intravedo un po’ dappertutto installazioni con monitor che mandano in onda contemporaneamente i video dei vent’anni di trasmissione, il Gabibbo circola tra la gente che si accalca per toccarlo: davvero non riesco a credere che migliaia di persone siano uscite di casa per incontrare un pupazzo e due ragazzine. Evidentemente, Striscia la notizia sviluppa un forte senso di appartenenza! Trovo il fatto strano e interessante, un indizio per capire la società italiana di oggi.
Chiamo un amico che lavora come cameraman, gli chiedo di venire perché sono certa di star assistendo a qualcosa di importante, qualcosa che racconta di questi anni molto più di tanti libri. Ma lui non può, non è a Milano. Mi pento di non portare una piccola telecamera sempre con me.
Dal piano di sopra giunge intanto la voce di Bruno Vespa: “Il corpo di un uomo è stato trovato in una macchina in via Caetani…”. È la registrazione dell’edizione straordinaria del Tg1 del 9 maggio 1978 che annuncia il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Me lo ricordo bene, quel giorno in cui a Milano c’era un clima sospeso, silenzioso, come prima dello scoppio di una bomba. Ricordo anche che quel 9 maggio, a Cinisi, in provincia di Palermo, fecero saltare in aria Peppino Impastato, figura da me amatissima, colpevole di aver osato ridere della mafia.
Immobile tra i due piani, mio figlio accanto a me, osservo dall’alto un campione significativo di quei sette milioni di italiani che mediamente ogni sera, secondo l’Auditel, guardano contenti le due quasi bambine in ginocchio col culetto in vista e i due anziani presentatori con una comicità da avanspettacolo anni cinquanta. Spettatori che si sentono anche un po’ barricaderi – e così si mettono la coscienza a posto – per aver delegato una possibile protesta al Gabibbo, un pupazzo che è come un giullare, pagato dalla corte che in questo modo controlla la capacità di reazione, ormai quasi azzerata, dei sudditi.
Un piano più su, e solo dieci anni prima dell’inizio di Striscia, gli anni settanta. Pare che un secolo divida questi due decenni, i cloni dei tronisti che dal piano terra inneggiano: “Melissa, Melissa, Melissa!” e gli slogan ai cortei, che dal primo piano giungono da un’installazione.
Quand’è stato, mi sono sempre chiesta, che si è passati dalla lotta armata, dal clima di tensione, dalla protesta, dalle manifestazioni oceaniche al disimpegno politico e all’interesse per il mercato come valore portante? Tra il ’78 e l’80, molto probabilmente. Ecco, a metà tra piano terra e primo piano della Triennale di Milano, vedo gli anni in cui sto vivendo e gli anni che li hanno preceduti: avremmo potuto produrre un tempo migliore? Dove abbiamo sbagliato?