donnetrabanchiCara Lorella,
leggo spesso il tuo blog, ma non ho mai scritto nulla, perché le mie riflessioni mi sembrano sempre poco profonde e il mio stile è decisamente poco brillante. C’è sempre chi esprime il mio punto di vista in modo migliore di come potrei fare io. Oggi, però, prendo il coraggio a quattro mani e voglio raccontarti una storia di donne. Mi sembra giunto il momento, proprio adesso che noi donne siamo costrette a camminare a testa bassa… E’ la storia delle lavoratrici di una fabbrica nata nella città in cui vivo – Grosseto – molto tempo fa (1957). Qui non c’è una realtà industriale sviluppata e la fabbrica era una delle poche aziende in grado di dare lavoro ad un discreto numero di persone (attualmente più di 250). Nel tempo l’azienda è cresciuta, con alti e bassi, ed è arrivata ad affermarsi nel mercato, anche internazionale, dell’abbigliamento. Poi all’improvviso la crisi. Non conosco bene i dettagli, e quindi mi astengo dal riferire notizie che potrebbero essere imprecise (la stampa locale non è stata di grande aiuto) e non mi addenterò nei dettagli (cesisoni di azienda, procedure di liquidazione, cassa integrazione, ecc.) Voglio solo raccontare la storia di tante donne (madri, mogli, figlie), che sempre più spesso mi capita di incontrare e che mi parlano della loro condizione. Sono donne che da mesi lavorano senza la certezza della retribuzione (mi riferiscono di pagamenti a singhiozzo, in ritardo e parziali) che hanno accettato di lavorare in una fabbrica priva di riscaldamento pur di portare a termine gli ordini. L’assurdo di tutta questa storia è che la crisi non è stata determinata dalla mancanza di commesse, ma, a quanto pare, da incomprensibili errori di gestione. Gli ordini ci sono sempre stati, anche da clienti importanti, ciononostante 260 persone rischiano oggi di perdere il posto di lavoro. Le “vestaglie azzurre” continuano a lavorare, per uno stipendio ridotto al minimo che non sanno se e quando arriverà, continuando ad andare in fabbrica pur non sapendo fino a quando potranno continuare a farlo, chiedendosi come potranno pagare il mutuo, come potranno pagare la retta dell’asilo dei figli o la badante dei genitori. Lavorano con difficoltà, perché tagliare, cucire e stirare con indosso giacca o cappotto non è semplice. Penso che la loro storia dovrebbe essere sulle prime pagine dei giornali: è assurdo che nel 2011 ci siano donne che lavorano in condizioni pari a quelle delle operaie dei primi del novecento, non si può fare finta di nulla! Ho chiesto a qualcuna perché non abbiano provato a portare la loro questione all’attenzione dei quotidiani nazionali e mi sono sentita rispondere che non è il caso, perché ci sono persone che versano in condizioni peggiori e, quindi, pensano che la loro storia non interessi. Questa considerazione è un po’ lo specchio dei tempi: siamo tutti un po’ rassegnati e arresi di fronte alle difficoltà. La loro storia mi ah profondamente colpita, in questi giorni tristi, quando sento pronunciare la parola “dignità”, penso a loro, alle donne che ho incontrato e che – loro sì con grande dignità – mi hanno raccontato ognuna una parte della loro storia. Penso a loro che proprio una settimana fa, saputo dell’arrivo di una commessa che consentirà di lavorare per un’altra settimana, hanno deciso di non occupare la fabbrica, ma di continuare a lavorare, nella speranza che le aziende che si sono dimostrate interessate all’acquisto dell’attività presenti il piano industriale. Hanno dimostrato di credere in loro stesse e nel loro lavoro e sperano che questo sia sufficiente per far ripartire l’azienda. Le ammiro, tanto, e vorrei poter fare qualcosa per aiutarle, vorrei che tutta l’Italia potesse conoscere la loro storia e ammirare il loro coraggio. Comincio da qui, sarà una goccia nel mare, ma almeno non sarò rimasta impassibile a guardare.