Io sono una patita delle parole. Da bambina divoro qualsiasi pezzo di carta che mi trovo in mano – e questa pazzia si è iniziata molto presto nella mia vita, con i fumetti. Il ricordo è molto chiaro: io di anni ne avevo quattro, ed ero seduta sul letto mentre mia madre mi leggeva i fumetti e mi aiutava ad unire le lettere che formavano le parole che formavano le frasi che formavano le storie… E così ho imparato a leggere, prima di tutti le altre bambine e gli altri bambini all’asilo nido – orgoglio della mamma!

Non ci siamo mai lasciati, i fumetti ed io. Mentre crescevo, sono cambiati i miei gusti, ovviamente: oggi mi affascinano i fumetti erotici (sopratutto quelli dei grandi Milo Manara e Guido Crepax) e i fumetti politici. So che devo a loro la mia devozione e il mio amore alla parola scritta, ma paradossalmente ciò che me ne piace di più è il modo in cui riescono a comunicare idee e concetti complessi in poche parole; la ricchezza delle forme e dei colori; o come un piccolo dettaglio può essere decisivo nella storia, o può scatenare un’emozione che una parola forse non sarebbe in grado di farlo. Mi ricordo lo shock della lettura di “Persepolis”, di Marjane Satrapi (leggetevelo se non lo avete fatto ancora!), e da qualche settimana mi aspetta “Palestina”, di Joe Sacco, che non vedo l’ora di iniziare.

Tra le molte ricchezze del mio paese, ci sono anche dei fumettisti geniali. Ce n’è uno in speciale che io idolatro, proprio – è pure chiamato ‘dio’ dai suoi colleghi fumettisti, che riconoscono la sua incomparabile grandezza. Anche i suoi fumetti li leggo da ragazzina, ed è interessante pensare a quanto la mia percezione del suo lavoro è diventata più acuta con gli anni – così come le sue strisce. Con lui ho imparato cos’è l’ironia; i suoi fumetti portano la fine ironia che permette che quelli che non riescono a capirla godino la battuta, ma quelli che la capiscono si trovono di fronte al vero humour, intelligente, sagace, che ci fa sorridere con amarezza mentre ci fa vedere le piccole contradizioni e gli assurdi della nostra società e della nostra vita quotidiana.

Il suo nome è Laerte Coutinho. Ha sessant’anni e ha lavorato in tutte le grandi testate brasiliane. Ha militato nel Partito Comunista durante gli anni di piombo della dittatura militare negli anni 70, ha combattuto al fianco dei movimenti dei lavoratori e dei sindacati negli anni 80, e ha costruito la sua reputazione di grande fumettista e critico sociale in 40 anni di carriera.

Oggi, però, non si parla di altro: Laerte è un crossdresser – ovvero, un transgender, come lui si definisce. La prima volta in cui ne ha parlato pubblicamente fu in una intervista due anni fa, in cui raccontò candidamente che a lui piaceva indossare i vestiti femminili e che frequentava dei club di crossdressers. Scalpore assoluto. Le domande non finivano: Come mai? Che vuol dire? Ma non sei eterossessuale? Ma non ci hai dei figli, una fidanzata, che ne pensano loro?

Infatti già da qualche anno si poteva intravedere nei suoi fumetti questo suo percorso personale. Le sue strisce sono diventate sempre più filosofiche, astratte, introspettive (anche a causa della perdita di un figlio nel 2005, a soli 22 anni, fatto che lo ha buttato in una crisi personale che di certo lo ha portato a questionare anche la sua identità di genere). Lui esternava la sua ricerca personale nel suo lavoro, esplorando sempre più la tematica di genere, la discriminazione, l’omofobia… La stricia che illustra questo post è una delle mie preferite di questa sua fase transgender. Il titolo è “Conducendo un dibattito (soltanto) con la mente”, in cui le sue due metà, quella femminile e quella maschile, discutono cos’è un essere umano. La metà maschile sostiene che solo lui lo si può considerare: “tu sei la femmina dell’essere umano”, le dice. “Io rappresento tutta la specie.” “Devi essere esausto”, risponde lei. “Non me ne parlare”, si sfoga lui.

Da questo primo approccio all’argomento Laerte non fa altro che rilasciare interviste a riviste e giornali ed andare ai talk show in tv per parlare della sua “condizione”. E lo fa tanto bene! È troppo divertente osservare la sua tranquilità e naturalità nell’affrontare la questione, e lo sconcerto delle giornaliste e dei giornalisti, che lo guardano con gli occhi frastornati. Si vede che per loro è come se crollasse tutto un modo di organizzare e catalogare il mondo e le persone: è un uomo? È una donna? È gay? È etero? Gli chiamo ‘lei’ o ‘lui’? E le domande diventono sempre più stupide: ma perché indossi una gonna e non un vestito? Perché un vestito lungo e non una minigonna? Indossi anche le mutandine? Anche il reggiseno? Di che colore sono? Come fai a comprarli? Perché? Perché? PERCHÈ???

Laerte, padrone di se stesso e dei suoi desideri, dall’alto della sua libertà sembra voler dire: e perché no? Le gabbie, le maledette gabbie dalle quali la maggioranza della gente non riesce a liberarsi, diventano frantumi sotto i suoi tacchi a spillo. Nella sua ultima intervista, rilasciata un mese fa ad uno dei più autorevoli talk show brasiliani, lui ha affermato di stare facendo “un lavoro su se stesso”. La sua esperienza è un modo personale di cancellare la divisione tra maschile/femminile: “Ho capito meglio le donne, che poi sono tanto facili da capire quanto gli uomini”. Ma la grande affermazione della serata, secondo me, fu quella sulla “rivoluzione maschile”: “le donne hanno fatto la loro rivoluzione. Sono uscite di casa, sono andate in piazza, hanno bruciato i reggiseni, hanno rivendicato i loro diritti di essere libere, di fare ciò che vogliono. Gli uomini no. Abbiamo gli stessi ruoli e viviamo sulle stesse regole da secoli, ormai. Adesso tocca a noi fare la nostra rivoluzione.”

Una grande giornalista ha scritto che Laerte è “la rivoluzione incarnatasi in una persona”. Mi piace pensare che quando sarò vecchia racconterò ai miei nipotini di questo uomo, mio contemporaneo, che ha scatenato la rivoluzione maschile.

L’intervistatore, impaziente, gli ha chiesto: “ma perché mai ti devi vestire di donna?” Laerte, impassibile: “Ma io non mi vesto di donna. Indosso dei vestiti che secondo voi appartengono all’abbigliamento femminile.” Ecco: è un essere umano che si vuole vestire come gli pare. Fermatevi e pensateci un po’: che male c’è?

Carol de Assis