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Per la Primavera araba si profila un autunno caldo. Le proteste, i sommovimenti e le rivolte che negli ultimi mesi si sono registrati in Nordafrica e in Medio Oriente hanno fatto presupporre che l’area fosse sotto la spinta del cambiamento. Per la stampa e gli osservatori internazionali si è però oggi passati dalla certezza in merito all’inevitabilità dell’espansione democratica alla retorica della frustrazione. E ciò per l’impossibilità della stessa espansione democratica di prevalere in quanto costretta e limitata da fattori contro-rivoluzionari endogeni ed esogeni.
I timori di un mancato cambiamento – legati alla comparsa di una possibile stagione di depressione economica, emergenza sociale, aperti conflitti e insicurezza geopolitica dell’area – sono cresciuti con il trascorrere della Primavera: alla relativamente rapida caduta di Ben Ali in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto non è seguita, ad esempio, quella di Gheddafi, auspicata dalle potenze occidentali per la Libia. Così mentre i primi due paesi si trovano ora alle prese con una difficile transizione dagli esiti tutt’altro che certi, la terza si è arenata in una guerra civile e in uno stallo difficilmente sovvertibile dall’incerto intervento internazionale, collegato anche al relativo disimpegno statunitense nell’area. Nel contempo, l’effetto domino rivoluzionario, seguito da quello della repressione, si è propagato in Siria, Bahrein e Yemen e con esso un arco di instabilità che parte dalle coste del Nord Africa e si spinge fino all’Iran, collegandosi alla ormai cronica fragilità dell’Asia centrale e meridionale, a partire dall’Afghanistan.
Gli scenari rimangono quindi più che mai aperti e le prospettive di un autunno caldo del mondo arabo potrebbero ulteriormente mutare gli attori, i ruoli delle potenze e le relazioni internazionali degli ultimi decenni.