Ecco la testimonianza di Giulia Montanelli, nostra corrispondente dall’OLANDA che riprende il tema della MATERNITA’ proposta da Livia da Berlino 2 settimane fa e che molto ha fatto discutere.
“Ho letto con attenzione la lettera che ha inviato Livia da Berlino e che è stata pubblicata la scorsa settimana.Livia fa una domanda molto diretta: “Perché avere figli?” e io, che di figli ne ho due sto cercando di smettere, vorrei provare a rispondere.Avviso in anticipo che sarà una risposta fumosa,piena di contraddizioni, balzi illogici, una certa dose di misticismo e soprattutto rigorosamente personale. Sia molto chiaro che non intendo generalizzare, rispondo per me alla luce della mia esperienza.
Da giovanissima anch’io ho formulato la fatidica affermazione “non vorrò mai dei figli”. Mi sono laureata, ho iniziato la mia vita lavorativa, mi sono sposata e non era all’orizzonte nulla di diverso da quello che io e mio marito ci eravamo sempre detti fin da ragazzi: noi volevamo vivere insieme, costruire una vita per noi due, lavorare e lavorare bene. Dentro quel “lavorare bene” c’è tutto quello che ci rappresenta, volevamo lavorare in modo da trarne massima soddisfazione, piacere personale nel fare quello che ci appassiona, vederci riconosciuti i meriti della nostra intelligenza e della nostra fatica. Tutto questo continuava a non includere un progetto di allargamento familiare. Abbiamo comprato un piccolo appartamento in Brianza e facevamo una vita che non lasciava spazio a nulla che non fosse una vita tra adulti.
E poi un giorno… la vita è lunga e fa tanti giri.
Lavoravo in un istituto di ricerche di mercato e mi occupavo di analisi dei dati. Ci venne commissionata da una nota marca di alimenti per bambini una ricerca di mercato il cui obiettivo era quello di segmentare il mercato in modo da rivolgersi ai neogenitori, e alle neomamme in particolare, in modo efficace attraverso al pubblicità (di ricerca di mercato si trattava e il babyfood è ancora appannaggio materno nella testa delle aziende e, ohimè, nell’immaginario collettivo). Era un progetto di ricerca piuttosto ampio: mi sono occupata io di quei dati e mi è saltato agli occhi un risultato che oggi mi pare ovvio, ma che in quel momento è stata una scintilla. Giovane laureata e assorbita dal lavoro, davo per scontato che essere madri volesse dire essere molto tristi. Nutrivo una sorta di disprezzo pietoso per chi aveva figli, perché pensavo che averne fosse solo una condanna, un fine pena mai, una catena di obblighi che non sarebbe mai giunta al termine e che avrebbe comportato la rinuncia a tutto quello che per me era importante: il lavorare bene. Supponevo che potesse anche essere bello avere un figlio, non mettevo in dubbio che l’amore materno e filiale esistesse, ma pensavo che il prezzo da pagare non valesse la pena. E invece quei dati dicevano una cosa diversa: le madri non erano tutte scontente. Alcune sì, erano infelici, ma si delineava chiaramente un gruppo di madri felicissime della loro condizione, che non vivevano come rinuncia. Mi si conceda l’attenuante della superbia della prima giovinezza, ho letto quel dato e sono subito andata a cercare di spiegarmelo: facevo ipotesi diverse, ma partivo dall’assunto che le madri felici potessero essere solo quelle che avevano continuato a lavorare come prima che nascessero i loro figli, mantenendo insomma lo stato precedente alla maternità, con la sola aggiunta della maternità. Insomma, pensavo che avere dei figli potesse essere un di più. E invece no: le mamme contente erano mamme che lavoravano, ma anche mamme che stavano a casa. Non riuscivo a trovare il bandolo, ho sezionato quel campione in lungo e in largo, finché la ricercatrice che si occupava di questa ricerca mi ha fornito la risposta più ovvia e più difficile: le madri contente erano quelle libere, quelle che avevano scelto la maternità e che avevano avuto la possibilità di fare le mamme a modo loro: qualcuna lavorando, qualcuna no, qualcuna con un figlio, qualcuna con molti figli.
Sia ovvio che semplifico e mi concentro sul tema lavoro perché per me quello era (ed è) il tema più caldo.
Ecco, questa scoperta se non altro mi ha fatto nascere qualche dubbio: che avere figli non fosse né rinuncia e sacrificio né banale gioiosa aggiunta?Lancio questa prima pietruzza e proseguo riprendendo alcuni dei motivi che vengono spesso portati a favore della procreazione:
– avere dei figli per dare uno scossone alla coppia: se vogliamo dire che avere figli mette alla prova i genitori nel senso che devono diventare dei maghi nell’organizzazione, questo sì; se ci sono coppie che amano la sfida di incastrare le proprie giornate facendole ruotare intorno a una piccola persona che, almeno per un paio d’anni, si esprimerà a grida e versi ferini, ognuno ha i suoi gusti, ma diciamo che tenderei a escluderla come argomento a favore. Ci si può complicare la vita in molti modi diversi senza implicare terzi.
– avere dei figli perché si può: la posizione economica della coppia è consolidata è c’è spazio per allargare la famiglia. Ecco, questa è una motivazione che non ho mai capito; o meglio, capisco la necessità di avere un po’ di stabilità per mettere al mondo un bambino e lo trovo il minimo sindacale in termini di raziocinio, ma ormai sembra che una coppia ha le condizioni economiche minime per procreare sia naturalmente attesa a riprodursi. Non mi è chiaro: qualche tempo fa, sull’onda di una scherzosa domanda di amici che stanno per avere un figlio e che ci chiedevamo come è cambiato il nostro bilancio familiare dopo la nascita dei nostri, abbiamo fatto un po’ di conti: se non avessimo avuto figli, oggi avremo già chiuso un mutuo, avremmo finito di ristrutturare la casa in cui viviamo e ci saremmo anche tolti qualche sfizio. La motivazione della stabilità economica cede sotto i colpi del bilancio di casa: se si vuole mantenere stabilità economica, i figli non sono la strada da percorrere.
– avere dei figli per paura di invecchiare e morire soli: è una delle motivazioni che mi turba di più. Come si fa a mettere al mondo un figlio dandogli un fine, ipotecandogli il futuro alla nascita? Personalmente, spero che i miei figli mi vorranno bene, spero che potrò godere della loro compagnia, ma cerco fin d’ora di mettere le basi perché non abbiano da occuparsi di me. Da loro spero (e sottolineo spero) di ricevere amore, non assistenza medica o compagnia forzate. Avere dei figli non è un atto egoistico, è una scelta che non chiede un parere a chi vi sarà coinvolto perché non è possibile interpellarlo, ma un figlio non può essere sottoposto a condizione.Procedo a balzi e saltelli, me ne rendo conto, ma è perché questo percorso per me è stato così: pieno di salti, intoppi e sorprese, nel bene e nel male.
Siamo al punto in cui nella mia testa si è insinuato un dubbio, le granitiche certezze della mia giovinezza non erano poi così granitiche. Dall’altra parte, la bilancia dei pro e contro della procreazione segna una netta pendenza a sfavore.
Il passo successivo è stato, come da migliore tradizione, un passo mistico: ho fatto un sogno. Ho sognato una ragazza alta con una crocchia da befana e mi sono svegliata sapendo che quella era mia figlia. (l’avevo detto che questo passaggio era mistico!)
Lì è nato un desiderio e chissà come, nello stesso momento, mio marito ha fatto lo stesso passo: a noi i figli non sono capitati, li abbiamo proprio desiderati. Come nascono i desideri? Perché nascono nello stesso momento in due persone distinte? Gran bella domanda, destinata a restare senza risposta.

Poi è arrivata la gravidanza del mio primo figlio, una gravidanza molto meditata e anche molto attesa, e un episodio mi permette di aggiungere un altro pezzetto. In Olanda le indagini prenatali sono ridotte al minimo e io, in quando ragionevolmente giovane e in salute non ho sentito la necessità di chiedere di più. Poco prima delle 20 settimane di gestazione ho fatto l’ecografia morfologica, durante la quale il feto viene controllato praticante in tutto quello che è visibile. Nostro figlio era davvero figlio di un’analista e di un ingegnere: perfettamente in media. Il mio ginecologo commentò l’esito dicendo: “Lei è molto fortunata: non sa quante volte a questo punto ho delle brutte notizie da dare”. Ho covato per qualche giorno un tumulto di pensieri e alla fine ne ho cavato qualcosa che vorrei fosse letto in chiave assolutamente laica, perché è così che esce dalla mia testa: forse avere un figlio è anche un atto di speranza. Speri che vada tutto bene, che tuo figlio nasca sano, che la vita che avrà sia felice, che il mondo che lo accoglierà sia un mondo libero, tollerante, solidale. Ecco, forse avere un figlio è un atto di speranza e uno stimolo ad agire perché il mondo che lo accoglierà sia come vorremmo che fosse.

I nostri figli adesso sono piccoli, io e mio marito lavoriamo entrambi, le nostre vite non si svolgono esclusivamente intorno ai nostri figli, ma i nostri figli ne sono certamente il centro. E io faccio parte di quel gruppo di donne felici che dei figli godono la gioia che portano con sé, senza ignorarne (né esasperarne!) la fatica: come tutte le cose dalla vita, quelle che ti fanno molto contento sono anche quelle che richiedono un grande impegno. Queste due condizioni coesistono e non possono che essere considerate un tutt’uno.

Alla fin fine, Livia, credo che tu non abbia trovato nessuno che ti
desse una risposta esauriente perché una risposta non c’è: nasce il desiderio di un figlio perché sì o non nasce perché no. Altro non credo si possa dire.