Qui in questa pagina si fa politica da 4 anni.
Seguiamo le ragazze e i ragazzi italiani/e che faticosamente in Italia e all’estero cercano di esistere. Che con noi adulte/i che abbiamo perso la rotta, che non sappiamo più essere guida, è diffcile divetnare grandi.
Dopo la LETTERA di Giulia Camin che trovate qui sotto, ecco MARINA che lotta come una tigre peresistere e  resitere a Sydney, città fantastica. Ma provate a stare lontana anni sola e giovanissima.
Altro che  ” scelta elitaria”. Ragazze che si fanno un mazzo tanto. Vivere  a 24 ore di volo lontani da casa. Che se ti prende la nostalgia te la smazzi da sola. Che se stai male, ti arrangi.
Giovani donne resilienti. Sono orgogliosa di voi.

A marzo 2009 ero in fila all’aeroporto di Milano Malpensa e aspettavo con impazienza l’imbarco per il mio volo che mi avrebbe fatto atterrare in Australia, dove c’era l’amore e un’esperienza che pensavo non sarebbe andata oltre sei mesi.

Quattro anni dopo sono ancora a Sydney; ho un lavoro che amo e una stanza in un appartamento in condivisione con Federica, chef veneta, e Lola, australiana iscritta ad un master in legge e diritti umani. Eppure qualcosa mi manca sempre.

Come tutti i ragazzi che ho incontrato, ho attraversato tre fasi di riflessione sulle circostanze che mi hanno portato a svegliarmi questa mattina qui, a Bellevue Hill, e a cucinarmi due poached eggs (uova in camicia, se non erro) con un contorno di avocado, funghi e spinaci, invece dello yogurt con pezzettoni di frutta e conservanti.

La tesi era quella di “dover” partire perché non mi sentivo a mio agio nella piccola provincia in cui sono nata.

All’arrivo in Australia fu luna di miele. Per un anno non ci fu altro che passione e amore per questa nazione, di cui conoscevo pochissimo e di cui non volevo vedere i limiti.

L’antitesi non si fece attendere troppo e allo scadere del primo anno il mancato inserimento nel mercato del lavoro locale, in un ambito che non fosse quello della ristorazione, unito all’improvvisa consapevolezza che avrei rivisto la mia famiglia solo una volta l’anno nella migliore delle ipotesi, fecero crollare il castello di aspettative di cui avevo caricato la mia relazione con l’Australia.

Nel mio dialetto lodigiano, che è la lingua dei pragmatici, c’è un proverbio che dice più o meno così: “Qui c’è il morto e qui si piange,” a significare che i problemi vanno affrontati dove sorgono. E ci ho provato, o ci ho dovuto provare perché a legarmi indissolubilmente a questo paese c’erano anche motivazioni più dolci di una riga aggiunta sul curriculum vitae.

Ho lavorato in cucina per quasi due anni, mentre ero iscritta a un master in giornalismo alla University of Technology di Sydney.

Ricordo che alla prima lezione, la preside prese in disparte gli studenti stranieri, che avevano versato una retta tre volte superiore a quella dei compagni di corso australiani, per dirci chiaramente che non saremmo mai riusciti a lavorare in inglese, ma che la formazione che avremmo ricevuto ci avrebbe consentito comunque di diventare reporter nei nostri paesi d’origine.

Premettendo che la signora non sapesse assolutamente nulla dell’ordine dei giornalisti e che stentasse a capire se fossi italiana o spagnola, avendo lasciato l’Australia forse solo un paio di volte nel corso della sua carriera giornalistica, quello che mi aveva nauseato era che era appena scaduto il termine per ritirarsi dal corso e ottenere il rimborso della retta versata.

Alla faccia del “fair go” australiano, l’opportunità per tutti ma che per alcuni costa molto di più.

Sei mesi dopo, per l’incredulità della docente, firmavo il primo contratto con una piccola testata online australiana che si occupava di tecnologia. Credo che al mio primo intervento su questo blog stessi ancora scrivendo per loro.

Dopo la tesi e l’antitesi, la sintesi sarebbe dunque riuscire a maturare un senso di appagamento per quello che sono riuscita a fare, contenendo la nostalgia non solo della mia famiglia ma anche dell’Italia.

Maturando ed emigrando ho infatti riscoperto nel mio modo di affrontare le difficoltà una cifra distintiva dell’essere italiani.

Nel mio ultimo post su questo blog avevo provato a raccontare proprio alcune storie di resilienza, raccolte in Italia lo scorso dicembre.

Volevo mostrare come l’associazionismo, in questo caso creativo, fosse esemplare di una volontà di resistenza che si sarebbe poi potuta applicare anche in ambiti di cittadinanza attiva e, perché no, nella politica.

“Noi italiane fortissime,” era il titolo dato poi da Lorella al mio pezzo, scritto con ammirazione sincera per le donne che avevano trovato qualche minuto, tra lavoro, casa e le associazioni che dirigono, per parlarmi di loro.

Ecco, anche per noi che viviamo altrove, penso valga lo stesso principio.

Per questo fa male leggere commenti, come alcuni tra quelli che seguono il post di Giulia, che vorrebbero negarci diritto di parola sulle questioni italiane, perché ormai “abbiamo abbandonato” il paese; o quelli di chi, pensando alla durissima situazione economica e sociale presente, sogna un futuro migliore ma solo per alcuni: “Che questi non tornino poi a prendersi i frutti della nostra fatica.”

Le nostre vite sono tutte figlie dello stesso trauma socio-economico.

Di fronte al disagio della nostra epoca, ognuno reagisce secondo i mezzi che possiede, ma è la vita poi che pensa a rendere meno prevedibile il percorso che avevamo pianificato.

Nessuno di noi nega la fatica vissuta in Italia, cui pensiamo con dolore e senso di impotenza.

Temo tuttavia che, se non impariamo a conoscere le realtà gli uni degli atri, a lungo andare si crei un divisionismo pericoloso e certo alimentato dalla retorica, soprattutto quella mediatica che, amando parlare di “cervelli in fuga,” induce ad errate valutazioni.

Innanzitutto alimenta la percezione che chi lavora all’estero, momentaneamente o a tempo indeterminato, si compiaccia narcisisticamente della propria posizione e consideri imbecilli quelli che decidono di rimanere.

In secondo luogo dimentica che a partire dall’Italia ci sono altrettante “mani” capaci.

Vi posso assicurare che la maggioranza dei ragazzi che incontro per lavoro, almeno qui, vorrebbe tornare a contribuire alla crescita del paese dove è nato, una volta fattosi forte di risorse economiche o di competenze professionali.

Qualora anche il mio rientro diventasse possibile, non vorrei dovermi sentire in colpa per aver scelto a ventidue anni di lavorare in una nazione che me l’ha permesso.

Mi auguro che in futuro tra chi parte, resta ma anche torna, si possa creare una forte coesione che aiuti a far sentire tutte le nostre voci.

Marina Freri