Qualche giorno fa mi è tornata in mente un’immagine. Un signore, sotto la pioggia, attraversa veloce campo San Barnaba, a Venezia, coprendosi la testa con un librone bianco. A ripensarci mi prende un sussulto, persino ora che sono nel mio ufficio e che mi sento «al sicuro». Sono passati tanti anni, sono cambiate tante cose.

A dire il vero non si tratta di un’immagine inventata, ma di un ricordo ben preciso. Il signore di cui parlo era un docente della mia Università a cui avevo appena consegnato la mia tesi di laurea specialistica. L’avevo contattato in quanto membro del corpo docenti di un master creato da poco presso l’Università di Roma. Sono sempre stata abbastanza scettica nei confronti di formazioni e corsi di studi infiniti, ma questo master di due anni sembrava presentare un programma di tutto rispetto e avrebbe potuto calzare a perfezione con il mio percorso di preparazione professionale. Invece che fare come tante persone che avevano studiato insieme a me, io stavo valutando un’ipotesi che mi avrebbe permesso di integrarmi e conoscere meglio il tessuto culturale italiano. L’ipotesi estero non si era ancora fatta strada nella mia testa; molti e molte erano nel frattempo già fuggiti.

L’iscrizione costava però una sassata. Desideravo quindi capire se sarebbe stato possibile ottenere una borsa di studio, vista magari anche l’attinenza con la mia tesi di laurea specialistica e le sudate esperienze già accumulate nel settore. Lui, dopo un veloce incontro durante il quale aveva continuato ad annuire e stuzzicarsi la barba, pronunciò il fatidico «le farò sapere» per poi scomparire risucchiato dalle calli veneziane. Pochi minuti lo riavvistai; camminava veloce, si sarebbe detto un uomo in fuga. Incominciava a diluviare e lui aveva pensato bene di utilizzare la mia tesi come ombrello. Oltre 200 pagine scritte con estrema dedizione e impegno, stampate e rilegate con brossura a caldo, introduzione, bibliografie, appendici esposte al contatto con l’acqua scrosciante. Un’immagine meravigliosamente metaforica! Ho sorriso amaramente, ho immaginato che le cose non sarebbero andate come speravo e ho guardato oltre. Mi sono riorganizzata.

L’ombrello da quando vivo a Parigi non lo uso molto, ne ho quasi dimenticato l’esistenza. Come tanti espatriati, mi sono abituata ad affrontare la pioggia come una presenza di ordinaria amministrazione, non un come quell’ostacolo che viene vissuto con panico nel paese di «O sole mio», dove tre gocce bloccano il traffico. La mia tesi, quella che il gentile docente utilizzò per ripararsi il nobile capo, invece me la ricordo benissimo. L’ho data alla luce con grande gioia e entusiasmo. L’ho amata e mi è piaciuto scriverla, è stata la protagonista di un periodo che ricordo con grande piacere, sono arrivata al giorno della discussione di laurea beatamente più in carne del solito e allegra. Ricordo come fosse ieri il divertimento provato nello scrivere, la stessa passione che ritrovo ogni giorno nel mio lavoro e che non mi fa pentire di tutta la fatica fatta per arrivare a riconquistarlo, seppur in un’altra lingua, seppur in un altro paese, a difficoltà e rischi raddoppiati (alla faccia di chi dice «comodo partire, io resto qui a lottare!»).

Durante gli studi ho sempre lavorato a ritmo incessante. Ho sostenuto esami, seguito seminari, corsi di formazione, i primi anni da pendolare. Non sono un’eccezione, nessun martirio in solitudine, eravamo davvero in moltissime e moltissimi a conquistare il diritto allo studio a colpi di giornate cariche all’inverosimile tra studio e lavoretti vari. L’Università, gioie e dolori, mi ha regalato momenti indimenticabili, l’energia condivisa con i miei compagni di viaggio è ancora presente. Ma con il passare del tempo guardo indietro con maggiore consapevolezza, ripenso ai professoroni che non si presentavano alle lezioni o agli orari di ricevimento perché oberati da altre incarichi di rappresentanza… dev’essere molto dura ricevere  tre o quattro stipendi!

Ripenso al passaggio alla riforma universitaria, quella del 3+2 attuatasi a Venezia già nel 2003. Io l’ho vissuta in prima persona. In quel periodo i piani di studio sono stati oggetto di inquietanti trasformazioni, il carico di lavoro alleggerito e misurato a spanne, pesato sulla bilancia come carne al macello, interi corsi convertiti in crediti e debiti. Ripenso al misto di approssimazione, mancanza di serietà, la compravendita di dottorati fra dipartimenti coinvolti in eterne lotte fra lobby avversarie, i giochi di potere e gli inciuci intorno ai quali si snoda lo sviluppo o l’arretratezza del sistema universitario italiano hanno un posto d’onore nei miei ricordi di quegli anni. Uno specchio perfetto dei lati peggiori del nostro scenario politico attuale. Se è questa l’Università, complimenti!

E quindi, quando leggo dichiarazioni come queste rilasciate dall’attuale Rettore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia Carlo Carraro, da ex cafoscarina non posso che provare profondo fastidio. Il Magnifico Rettore si è commosso guardando il film. E la sua commozione mi fa purtroppo pensare alle lacrime di coccodrillo della signora Fornero e a quelle di tutti coloro che occupano posti chiave nella nostra società e che avrebbero gli strumenti per attuare un cambiamento reale ma tanto non lo fanno.

Riporto qui le sue parole:
«Una delle parti piu’ belle e toccanti del film e’ quella dedicata ai giovani talenti italiani sparsi per il mondo. Un patrimonio enorme di persone, capaci ed entusiaste, che per realizzare i loro obiettivi, o piu’ semplicemente per trovare qualcuno che li valorizzi, sono dovuti andare a lavorare all’estero. Nulla di male se l’Italia fosse in grado di attirare altrettanti talenti dal’estero. Ma purtroppo non e’ cosi’. Tra leggi e quote che rendono difficile se non impossibile l’immigrazione, anche di quella di elevata qualita’, e un paese stagnante, burocratico, gerontocratico,  i talenti stranieri che scelgono l’Italia sono davvero pochi. Ed in ogni caso, anche se fossimo capaci di attirare giovani brillanti da tutto il mondo, sarebbe comunque fondamentale mantenere i rapporti con i nostri giovani all’estero. Per offrire loro possibilita’ di rientro, ma soprattutto perche’ costituiscono una rete di relazioni ai massimi livelli nel mondo della ricerca e dell’impresa. Una rete che puo’ aiutare imprese e istituzioni nazionali a crescere e globalizzarsi. Una rete di contatti e conoscenze che potrebbe portare grandi benefici al paese»

Magnifico Rettore, Lei parla come chi osserva il corso degli eventi da semplice spettatore senza avere il reale potere di poterle migliorare.

Io ho studiato Conservazione dei Beni Culturali a Venezia, ora abito a Parigi dove ho trovato un lavoro all’altezza delle mie aspettative, senza aver avuto alcun appoggio né in Italia né altrove, dall’Università in cui ho studiato.

La definizione di cervelli in fuga, ripetuta a vanvera, continua ad essere fuorviante e inadeguata e quando si parla di fenomeni migratori raramente si lascia spazio  ai diretti interessati di esprimere il loro punto di vista, di raccontare il proprio percorso. Ed è un errore grave!

In veste di ex-cafoscarina mi permetto di chiedere al Magnifico Rettore: cosa intende concretamente per Ministero della Diaspora? Ha un progetto reale da esporci?

In questi giorni in cui sui giornali si leggono spesso i dati dei crolli delle iscrizioni alle università italiane. Non le punge vaghezza di pensare che invece di ipotizzare un Ministero della Diaspora sarebbe prima quanto meno necessario rivedere qualità, competitività e struttura del sistema universitario italiano?

Piuttosto che commuoversi per quello che lei definisce come un “patrimonio sparso nel mondo” non sarebbe opportuno che i rettori delle università italiane si com-muovessero anche per quei talenti inoccupati, sottoccupati o parcheggiati in Italia durante e dopo gli studi , cercando di valorizzare risorse umane e anche la storia degli atenei italiani, una storia che spesso il mondo intero ci ha invidiato, senza vendere gli spazi delle sedi storiche al miglior offerente?

Giulia Camin