Le manifestazioni Slut Walk sono iniziate  a Toronto l’anno scorso e sono diventate un movimento di protesta in tutto il mondo. I partecipanti protestano contro la spiegazione o giustificazione dello stupro in riferimento a qualsiasi idea sulle apparenze di una donna. Il movimento è nato quando l’agente Michael Sanguinetti, un ufficiale della polizia di Toronto, ha suggerito che per essere al sicuro, “le donne dovrebbero evitare di vestirsi come troie,” parola quest’ultima che in inglese si traduce ‘slut’.
Oggi lascio la homepage alla Slut walk di Oxford raccontata dalla nostra inviata Chiara Carpita, studiosa e ricercatrice di tematiche di genere.
Buona lettura.

 

Slut Walk Oxford 19 maggio 2012 

Slut Walk video 1

Slut Walk video 2

 

Whatever we wear

Wherever we go

Yes means yes

And no means no

My dress is not a yes!

We don’t deserve blame!

We don’t deserve shame!

We deserve respect!

It’s not what I wear

It’s not what I do

It’s just what I say

It’s not up to you!

My clothes are not louder than my voice

Il corteo della Slut Walk Oxford è partito dalla Radcliffe Camera ed ha attraversato tutta la città. Uomini e donne uniti/e contro la cultura patriarcale dello stupro che colpevolizza le/i sopravvissute/i.
Ho pensato molto a questa parola, sopravvissuta/o, a quanto sia l’unica possibile, come dice Emily Jacobson:

“I am walking because I was raped. I am walking because two thirds of people who answered a survey would say I am to blame for my rape. The only person to blame is the man who raped me. I am so angry with the lack of justice, the hundreds and thousands of rapists who walk away. I am angry because the survivors of rape are victimised again and again. If we report it (I did) we are forced to re-live it in horrendous detail several times over. We feel violated again when the CPS decides not to prosecute after all and he simply walks away. We are not victims. We were victims, for a moment in time. Now, we are survivors”

(Sto marciando perché sono stata violentata. Sto marciando perché due terzi delle persone che hanno risposto ad un sondaggio direbbero “è colpa mia se sono stata violentata”. L’unica persona da colpevolizzare è l’uomo che mi ha violentata. Sono così arrabbiata per la mancanza di giustizia, per le centinaia e migliaia di stupratori che camminano liberi. Sono arrabbiata perché le sopravvissute allo stupro sono violentate ancora e ancora. Se denunciamo (io l’ho fatto) siamo costrette a rivivere la violenza nei dettagli più orrendi, ancora e ancora. Ci sentiamo violate di nuovo quando il giudice decide alla fine di non punirlo e lui semplicemente se ne va via libero. Non siamo vittime. Siamo vittime in un momento preciso del tempo. Ora siamo sopravvissute).

La violenza sessuale ci riguarda tutti/e. Non è un evento tragico che capita per caso ad una o più persone isolate nel mondo. La cultura dello stupro riguarda la vita di tutte le donne e di tutti gli uomini. Per le donne significa convivere con la paura, con tutta una serie di limiti e pregiudizi violenti, significa anche soltanto sapere che dovrai affrontare la possibilità che qualcuno decida un giorno di ucciderti e darti la colpa. La colpa di essere viva, di vivere nel corpo di una donna che in quanto desiderabile è colpevole. E questa colpa viene instillata presto, troppo presto nelle bambine, quando è ancora impossibile capire che cosa stia succedendo, perché il mondo vuole la tua morte. La violenza inizia in quel momento, è una violenza simbolica che si scrive sui nostri corpi prima ancora che sia possibile capire il perché. Si insinua il dubbio che quel corpo osservato, smembrato, denigrato, usato sia colpevole del dolore che ci procura. Così la cultura dello stupro uccide le donne molto prima che siano davvero violentate o molestate.  Le considera responsabili del loro dolore.

Che cosa significa sopravvivere ad una violenza è qualcosa che non può essere definito, ma difeso, ascoltato. Rispetto è una parola che ricorre spesso nei cartelloni. Le parole della rappresentante del Black Women’s Rape Action Project dicono che questa donna ha vinto contro chi voleva ammazzarla, per venti anni fa del suo dolore il mezzo della sua lotta.

Nella folla hai la sensazione che il corpo e la voce siano uniti al corpo e alla voce degli altri. La gente segue il corteo dalle finestre, si ferma sul marciapiede, ci sostiene. È l’unico momento in cui hai la sensazione che la dimensione dei sopravvissuti, il silenzio, possa trasformarsi nel suo contrario: il grido. La loro voce è in quel corteo, negli sguardi di tanti che non parlano ma sono venuti qua a gridare. “Siamo tutte puttane” dice Anastacia Richarson una delle organizzatrici della Slut Walk di Londra. È questo che in qualche modo ci rende tutte sopravvissute. Dice un cartello di un ragazzo: “Ask raped”; si tratta di un ribaltamento della classica frase usata da chi giustifica lo stupro: “a raped woman in a short skirt was asking for it!”. Date la parola ai sopravvissuti non agli stupratori e a chi li giustifica. Da sempre il patriarcato prende parola sui nostri corpi per disciplinarli, controllarli, sopprimerli. Proprio quelli che dovrebbero rimanere in silenzio o parlare dei loro corpi assenti, delle loro emozioni negate, per capire il perché di questa volontà di uccidere. Questo lo fanno da tempo i “male studies” che decostruiscono il “rape myth” che rappresenta una sorta di formazione–iniziazione del maschile per la costruzione della cosiddetta “virilità” Come dice Bourdieu: “La virilità intesa come capacità riproduttiva, sessuale e sociale, ma anche come attitudine alla lotta e all’esercizio della violenza (in particolare alla vendetta) è prima di tutto un carico”.

La storia della Slut Walk parla di “victim blaming”, colpevolizzazione della vittima. Fu un poliziotto di Toronto a pronunciare la famosa frase: “le donne per la loro sicurezza dovrebbero evitare di vestirsi da puttane” (“women should avoid dressing like sluts”). Il 3 aprile 2011 ci fu la prima Slut Walk a Toronto e da lì il movimento si è diffuso in tutto il mondo. Qua in UK le ragazze e le donne di tutte le età si vestono in modi diversi, c’è un’apparente libertà, una sensazione che nessuno possa davvero giudicarti dal tuo vestito, ma i fatti parlano di qualcosa di molto diverso, che ci dice che niente è cambiato. Ad Oxford un recente sondaggio ha rivelato come il 60% delle studentesse ha  subito molestie sessuali in discoteca. Un altro importante sondaggio condotto per la Coalizione  “End Violence Against Women” pubblicato il 25 maggio ha rivelato che il 43% delle giovani donne di Londra (tra i 18 e i  34)ha subito molestie sessuali in luoghi pubblici nell’ultimo anno come riportato nel blog The F-Word ( http://www.thefword.org.uk/blog/2012/05/more_than_four )

È forte il pregiudizio della gente, della polizia, della società contro queste ragazze accusate di uscire da sole di notte, vestirsi da puttane, bere troppo. La Slut Walk aveva il senso di sostenerle, di non farle sentire sole, di rifiutare con forza la violenza degli stereotipi maschilisti di chi vuole giustificare lo stupro. Gli slogan parlano di questo: il modo di vestirsi, il passato di una persona, la sua promiscuità, il suo modo di parlare non contano. Solo il sì conta, solo il consenso come dice il cartellone di una ragazza: “If you wann be my lover you gotta get my consent!”.  “A kiss is not a contract!” dice un altro cartello, un bacio non implica il dovere di un atto sessuale e c’è ancora il bisogno di dirlo visto che tra i molti commentatori del post per soli uomini scritto da Lorella sul Fatto Quotidiano c’era ancora chi pensa che lo stupro sia “la forzatura dell’atto sessuale sotto l’eccitazione sessuale maschile” e che le donne molestino gli uomini con il loro abbigliamento provocante: “Se un uomo vi tocca il sedere è un molestatore, anche voi molestate e avete tutta l’intenzione di molestare quando nei luoghi di lavoro usate la provocazione sessuale per attirare l’attenzione maschile. È una molestia anche questa a tutti gli effetti. Fatevi anche voi un esame di coscienza su quanto rispettate gli uomini”. È esattemente questo pensiero sessista che giustifica la violenza sessuale, “you deserve it!” “te la sei cercata, hai avuto quello che ti meriti”.

Il dibattito dopo la Slut Walk al Wadham College è stato un momento intenso, eravamo tutti/e molto coinvolti. Ha parlato Adunni Adams, la rappresentante di Black Feminist UK, Anastacia Richardson, una delle giovani organizzatrici della Slut Walk London che tra poco si ripeterà, anche l’Oxford Feminist Network di cui faccio parte si sta muovendo per aiutare il gruppo di Londra, la fondatrice del Black Women’s Rape Action Project e l’attivista, autrice teatrale e ricercatrice Louise Lively che avevo conosciuto a Brunel alla conferenza “Future of Feminism”. È con lei che ho pensato di costruire un ponte Italia-UK per mettere in contatto le giovani attiviste inglesi e italiane. Louise si occupa di violenza sessuale da anni, ha scritto articoli e libri importanti, ci ha portato le testimonianze di ragazze minorenni scoraggiate dalla polizia a denunciare, ragazze morte suicide perché lasciate sole. Il momento più forte dell’incontro è quando due ragazze raccontano la loro esperienza: una ha subito un tentativo di stupro, conosce il suo aggressore ma, nonostante la denuncia, la polizia non interviene, dice che non può fare nulla. Un’altra ha chiesto se la sua esperienza personale di sopravvissuta può essere di aiuto agli altri, se può diventare un punto di forza nel suo attivismo. C’era un silenzio protettivo intorno.

È da poco uscito il documentario USA “Miss Representation” di Jennifer Siebel Newson che condivide con “Il corpo delle donne” l’obiettivo etico-politico della denuncia della violenza simbolica nei media. Si ritrovano le stesse tesi, immagini putroppo molto simili a quelle del documentario di Lorella, ma siamo in USA. Il gruppo studentesco femminista di Oxford ha organizzato una visione del documentario con un dibattito aperto che è durato ore. Nella conclusione si parla proprio del legame tra visione di immagini sessiste e di violenza contro le donne e aumento di casi di stupro  sopratutto tra adolescenti. Riporto qui le statistiche più significative:

Nel 2009 una serie di studi hanno provato che l’esposizione a video games e video musicali con scene di violenze alle donne o sessualmente espliciti sono collegati all’accettazione da parte degli uomini di “rape myths” e molestie sessuali.

1 teenager su 4 è stata violentata al suo primo appuntamento

1 donna su 4 è stata violentata dal suo partner

1 donna su 6 è sopravvissuta allo stupro

15% delle sopravvissute allo stupro hanno meno di 12 anni

I disturbi di cui soffrono I sopravvissuti allo stupro sono: depressione, abuso di alcol/droghe, suicidio.

Come dice Jean Kilbourne autrice del documentario sulla rappresentazione della donna nella pubblicità “Killing me Softly”: “Trasformare una persona in un oggetto è il primo passo per giustificare la violenza contro questa persona”.  Esattamente quello che sostiene la psicologa Chiara Volpato nel suo recente libro “Deumanizzazione” dove riporta alcune statistiche riprese dai Report dell’APA (American Psycology Association) che confermano questo dato.

Una delle frasi conclusive del documentario è di Gandhi “Be the change you wish to see in the world”. E come dice un ragazzo intervistato: “Non avere paura di dire ai tuoi amici che tu rispetti le donne, che tu non ridi alle loro battute sessiste, che non sei d’accordo con il loro comportamento violento”. Come dice Laurie Penny imparare a dire no ad un’ideologia e una cultura che ci vuole in silenzio è un eserizio. “We’re not beautiful, we’re not ugly, we’re angry”. Perché NO vuol dire NO.